“Padri e figlie” di Muccino

“Padri e figlie” di Muccino

“Fathers and daughters”, il nuovo film di Gabriele Muccino, il nono (e quarto consecutivo girato in America), è un film toccante, che emoziona e commuove; e tuttavia non sfrutta del tutto le sue potenzialità. Un film bello, ma certamente non un capolavoro né un film indimenticabile.

La colpa non è del regista, che anzi è qui nella sua forma migliore, bensì di una brutta sceneggiatura, affidata a Brad Desch: raffazzonata, per lunghi tratti melensa, non all’altezza di un film che dato il cast ambiva ad essere di tutt’altro livello.

Mi spiego meglio. Ci sono due piani narrativi, due storie distinte, che nel film si intrecciano continuamente: uno incentrato sull’infanzia della protagonista e ambientato negli anni ’80; l’altro, che racconta la maturità della ragazza, ambientato ai giorni nostri.
La prima è una storia di grande intensità, ha come protagonisti Russel Crowe, sempre perfetto qualunque sia il ruolo che viene affidato, e una piccola attrice prodigio, un’autentica rivelazione, Kylie Rogers, che sicuramente ha davanti a sé un futuro di sicuro successo. Di contorno ci sono Diane Kruger e Bruce Greenwood, zii della bambina, e Jane Fonda nei panni di un agente letterario.

La seconda vede invece la protagonista cresciuta, impersonata da Amanda Syefried, che, nonostante si impegni al massimo, non è un’ attrice adeguata alla parte (troppo frigida e impersonale, talvolta inespressiva); come protagonista maschile un Aron Paul molto convincente.

Questa parte di racconto è decisamente insignificante e si sarebbe potuta tranquillamente eliminare concentrandosi unicamente sulla prima (quella dell’infanzia della protagonista).
Senza voler svelare nulla della trama, è tuttavia da annotare come le scene che afferiscono al lavoro di assistente sociale della Seyfried siano tra le migliori del film. Come in tutti i film di Muccino, arriva a un certo punto, per uno degli attori principali, un momento di presa di coscienza, di svolta che porta a rimettere in discussione la propria esistenza.

“Padri e figlie” ha un altro vistoso difetto, legato ancora una volta alla sceneggiatura: il film scorre troppo velocemente; il finale, ad esempio, si svolge in maniera a dir poco frettolosa.
I temi che il film affronta – il rapporto tra genitori e figli, la morte, la malattia ecc – necessiterebbero di uno spazio di riflessione più ampio, meno fugace.
Come ha ben sintetizzato il più grande critico cinematografico, Paolo Mereghetti, sul Corriere, c’è “troppa carne al fuoco, troppe divagazioni narrative”, si affastellano “troppi temi sfiorati e mai davvero affrontati”.

Notevole la scelta delle musiche, raffinate e struggenti, che accompagnano il film. In “Padri e figlie”, comunque, Muccino sfodera tutto la sua enorme bravura. Il regista italoamericano è da sempre capace di raccontare, come nessun altro, i sentimenti e i drammi che la vita riserva, riuscendo quasi sempre a coinvolgere emotivamente lo spettatore. E in questo film ne dà un’ ulteriore prova. In “padri e figlie” sembra quasi dirci, filosoficamente, che noi siamo artefici del nostro destino, ma fino a un certo punto, poiché dobbiamo fare i conti, nelle nostre esistenze, con problemi, sofferenze, infelicità che non abbiamo voluto, e che pure ci toccano in sorte.
E’ questa sua abilità nello scandagliare l’animo umano, con uno sguardo profondo e intimista, il motivo del suo successo; è ciò che ne fa uno dei registi più interessanti del panorama italiano (e mondiale).
Una qualità che lui stesso si attribuisce quando dichiara che guardare i suoi film è come assistere a una seduta di psicanalisi.

La critica (italiana) continua ingiustamente a bistrattarlo (qualcuno di loro probabilmente si sarà anche risentito di fronte a una battuta maligna del film che associa il mestiere del critico agli scarafaggi).
L’unica eccezione, da questo punto di vista, è rappresentata da “la ricerca della felicità”, un film “americano” che fu molto apprezzato, sia dalla critica che dal pubblico, ed è unanimemente considerato il suo film più riuscito.

La fama di regista sentimentalistico e fatuo, quasi fosse da considerarsi Muccino un precursore di Moccia, gli deriva credo dal primo film che ne ha decretato il successo, “l’ultimo bacio” (mentre il seguito è di tutt’altro spessore).
Ma anche l’ultimo lavoro del regista italiano, “quello che so sull’amore” (un’orribile pacchianata americana, di cui si è pentito immediatamente), ha contribuito ad alimentare quest’immagine distorta.

Recentemente, durante la premiazione dei David di Donatello, Muccino ha avuto modo di polemizzare duramente nei confronti del mondo del cinema Italiano, lamentando la mancata considerazione, in dieci anni, nonostante i due grandi successi americani (“the pursuit of happiness sfiorò la candidatura agli Oscar).
Ha obbiettivamente ragione nel dispiacersi di non essere mai stato adeguatamente valorizzato e sostenuto in Patria (come accade, in ogni campo, a tutti i migliori talenti del nostro Paese), ma il successo che ha ottenuto negli Stati Uniti – è l’unico regista italiano ad aver sfondato in America – ne attesta l’indiscutibile valore.

E’ bene diffidare della critica, dato che il giudizio non può che essere per sua stessa natura soggettivo, e quindi altamente opinabile.
Meglio dunque farsi una propria opinione: “Padri e figlie” è un film che vale sicuramente la pena di vedere.

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