Il “Principe Libero” è solo Faber

Il “Principe Libero” è solo Faber

Tutto quello che si poteva dire su Fabrizio De André è già stato detto.

Sia in vita che dopo la morte, Faber è stato studiato, criticato e acclamato; fiumi di parole sono stati spesi sulle sue opere, le sue musiche, i suoi ideali, e su come collocarlo in un panorama musicale che ha contribuito a formare, fino alla semplice proclamazione come “uno dei più grandi cantautori italiani di sempre”. Le sue ballate si ascrivono ormai nel rango delle canzoni popolari, con intere generazioni cresciute “a pane e De André”, e hanno ispirato centinaia tra riadattamenti, titoli di album e di gruppi, programmi televisivi, film. I testi sono considerati da molti dei componimenti poetici, inclusi anche in antologie scolastiche, e non hanno ancora cessato di raccontare e ispirare nuove emozioni e riflessioni.

All’inizio di Principe Libero è quindi immediata la domanda: “Cosa c’è ancora da dire su Fabrizio De André?”.

Quello che mancava era un prodotto cinematografico che si incentrasse sul De André uomo, che spesso in passato è stato trattato in senso marginale e aneddotico. Un film al di fuori del cantautore, ma dall’interno delle sue canzoni, con uno stile non documentaristico, ma nemmeno del tutto romanzato. Principe Libero racconta la vita di Faber dall’adolescenza fino al sequestro, muovendo il cantautore tra i vicoli di una Genova congelata nel tempo, più palcoscenico degli eventi che città vecchia popolata da drogati e puttane. De André è il protagonista, ma viene circondato e contaminato dalle persone più importanti della sua vita, che accompagnano lo spettatore in un percorso intimo e delicato, in cui i trascorsi di Faber ricalcano e al contempo plasmano la sua personalità.

I parenti stretti, com’è intuibile, sono i primi a solcare la scena; la vita familiare di De André, presente fino agli ultimi istanti del film, ruota perlopiù intorno al padre Giuseppe e al fratello maggiore Mauro. Col padre, il rapporto è oscillante sin dall’adolescenza, in cui i fisiologici contrasti si alternano a sottili dimostrazioni d’amore, segno di un intreccio complesso che il film non ha voluto appiattire in un semplice scontro padre-figlio, né addolcire in un lieto fine senza conflitti. Giuseppe, col figlio Fabrizio, è un padre interessato e presente, molto desideroso di vederlo al contempo sistemato e felice, accettando a fatica le grandi ondate di creatività e sregolatezza di Faber; non rinuncerà mai a questo desiderio, e sul letto di morte chiederà a Faber di smettere di bere (e lui, con enorme fatica e consapevolezza della sua dipendenza, manterrà la promessa). Il fratello Mauro, del quale si è sempre parlato abbastanza poco, viene invece rappresentato come un’affidabile spalla e un solido punto di riferimento per De André, ricambiati sempre con rispetto e ascolto attento, nonostante la distanza nel carattere e nella filosofia.

Subito dopo la sua famiglia d’origine, sono le famiglie costruite a conquistare la scena del Principe Libero. Le due mogli, in particolare, si impongono come le vere co-protagoniste del film, riempiono lo schermo al pari di Luca Marinelli (attore interprete di Faber), e aiutano a comprendere le necessità profonde dell’uomo e dell’artista.

La prima moglie, Puny (soprannome di Enrica Rignon), è ritratta come una donna composta, orgogliosa e consapevole, che trova in Faber un grande amore e una complicità infiammanti all’inizio, ma che si spengono rapidamente una volta racchiuse intorno al focolare domestico. Puny, affascinata dall’animo artistico di Faber, non andrà mai contro ai suoi sogni e desideri, pur recriminando il suo umore lunatico e soffrendo in silenzio per la sua infedeltà. Da Puny nascerà il primo figlio, Cristiano, al quale il film dedica alcune scene durante il periodo del divorzio, dove Fabrizio si cala nel ruolo di padre in maniera talvolta distante, talvolta affettuosa.

La seconda e più conosciuta moglie, Dori Ghezzi, riempie il cuore del cantautore ancora desideroso di sentimento e vicinanza, e gli rimarrà accanto tutta la vita, sostenendolo nelle scelte artistiche, nella gestione della tenuta di campagna sarda, e nei duri mesi del sequestro. La storia con Dori Ghezzi copre circa metà del film, ed è forse l’elemento che più di altri ha contribuito a tratteggiare i sentimenti di un De André più adulto e maturo, fedele ai suoi princìpi ma aperto a possibilità, negoziati e ripensamenti.

Due momenti, in particolare, mostrano l’evoluzione di quest’ultimi aspetti. Il primo è quando Faber comunica alla ex moglie la nascita della seconda figlia Luvi, chiedendole di mettere da parte le divergenze e i rancori per il bene di Cristiano; il secondo è il momento conclusivo del rapimento, in cui prima assistiamo al cedimento di De André nei confronti dei sequestratori, che lo obbligano a scrivere una lettera al padre implorando di pagare il riscatto, e in seguito lo vediamo consolare la moglie Dori, rilasciata poche ore prima di lui per fare da garanzia della transazione. Tutte queste scene ci mostrano un De André lontanissimo dal cantautore, ma empaticamente vicino come uomo.

E benché i personaggi della portata principale siano da soli in grado di reggere le tre ore di proiezione, il contorno riesce a insaporirle ulteriormente. Intorno al Faber più giovane e scalmanato vediamo in particolare tre personaggi: Paolo Villaggio, l’amico di sempre e una grande spinta nel compiere le scelte più coraggiose, Luigi Tenco, il confronto intellettuale con cui discutere del valore dell’arte, e Riccardo Mannerini, uno dei più importanti poeti con cui Faber ha affinato le sue doti di paroliere. La loro presenza colpisce non solo per l’incredibile somiglianza fisica e prossemica degli attori, ma per l’incisivo contributo in momenti biografici che vedono Faber alle prese con la giovinezza scalmanata, la ricerca dell’identità artistica, la crescita personale e letteraria.

Come detto, Principe Libero colpisce per la sua quasi totale noncuranza degli aspetti artistici di Fabrizio De André, lasciati unicamente alla colonna sonora, agli intermezzi musicali e alle scene dei concerti, focalizzandosi sul carattere e le scelte di Faber lungo il corso della vita. Difficile capire, tuttavia, se Principe Libero, pur colmando con un breve percorso filmico un vuoto nella narrazione esegetica del cantautore, riesca ad appassionare spettatori più giovani, che De André lo hanno sentito nominare dai genitori e da qualcuna delle canzoni più famose. L’impostazione narrativa lascia molto spesso dei non-detti che l’appassionato di Faber riesce a collegare senza problemi, ma risultano criptici per il neofita.

Non si può dire, insomma, che Principe Libero riesca a coprire ogni livello della complessità di Fabrizio De André, né che riesca in generale ad esserne il suo perfetto riassunto; è però certamente un ottimo film biografico che, pur non rinunciando alla correttezza espressiva, riesce a inglobare fluidamente una storia di vita affascinante.

E forse è meglio così, a costo di abbracciare l’incompletezza. Dopotutto, Fabrizio De André è tanto il Principe Libero quanto l’Amico Fragile.

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