Love, Death + Robots: le “stories” di Netflix

Love, Death + Robots: le “stories” di Netflix

Netflix, dopo il grande successo di Black Mirror, ci riprova con un’altra serie antologica per adulti.
Le diciotto puntate di “Love, Death + Robots” si divorano rapidamente e con curiosità, mescolando generi distanti e vicinissimi, ma tutte accomunate da generici temi di fantascienza, un gusto brutale e gore con svariate scene di horror corporeo, e molte pennellate di erotismo e commedia per alleggerire i carichi pesanti. I singoli episodi non vanno mai oltre i 15 minuti e sono stati realizzati con tecniche miste, dalla CGI all’animazione classica, dal fumetto ad attori veri all’animazione da videogioco.


Per parlare di “Love, Death + Robots”, dobbiamo parlare della brevità delle sue storie. Produrre un cortometraggio presenta sia vantaggi che svantaggi: da un lato, nel poco tempo a sua disposizione, è costretto a puntare tutto sul contenuto, sull’incastro efficiente e simbolico delle sequenze, sulla fluidità e l’esposizione fortissima dei concetti e delle narrazioni. “Love, Death + Robots”, su questo fronte, possiede alcune storie decisamente riuscite, come Tre Robot per l’ironia filosofica, Il dominio dello yogurt e La notte dei pesci per le idee pazzesche (ma entrambe troncate completamente sul finale), Buona caccia per la bellissima storia e l’ottimo sviluppo dei personaggi, Zima Blue per la meravigliosa esposizione trascendentale ed essenziale. Di contro, quando un cortometraggio lascia insoddisfatti, si può pensare che con più minuti di screenplay e in un contesto con più ampio respiro, si sarebbe davvero voluto vedere una storia più lunga di quella che hanno deciso di mostrare: Oltre Aquila, Mutaforma, Il vantaggio di Sonnie, Punto cieco e Guerra segreta, ad esempio, hanno tutte in comune un intreccio interessante, ma una sostanziale mancanza di tempo e costruzione che possa esprimere il loro potenziale.
La serie, per sua fortuna, si inserisce in un filone proficuo di racconti brevi di fantascienza, che risale agli anni trenta-quaranta con Lovecraft e Asimov e arriva fino ad oggi con Chiang, passando in mezzo per una lista infinita di autori, riviste, raccolte, premi e anche film, serie animate, serie tv. Non è un caso infatti che la serie sia ispirata a “Heavy Metal”, un film degli anni ‘80 che a sua volta prende spunto da una rivista di fantascienza degli anni ‘70, in cui venivano pubblicate storie sci-fi a fumetti con tematiche noir, immagini forti e intermezzi erotici, e ha prestato il nome all’omonimo genere musicale.


In generale, la sensazione che si ha nel guardare gli episodi di “Love, Death + Robots” è quella di una sequela di frammenti e scenari in cui, dopo una brevissima presentazione del contesto, si balza immediatamente all’azione, si snoda in fretta uno sviluppo e si chiude con un colpo di scena o una prevedibile conclusione, per poi passare alla prossima scheggia, poi alla prossima e così via, finché la mente non è invasa da immagini, emozioni e sequenze visive che si intersecano e a volte si confondono. Quest’impressione, tuttavia, non dipende dal binge-watching né dal fatto di essere una raccolta di cortometraggi, ma dal modo in cui sono stati concepiti e sviluppati i ritmi narrativi.
La maggiore criticità di “Love, Death + Robots” è infatti strutturale, e permea anche le storie che, personalmente, considero le migliori. Netflix ha concepito il pacchetto in un formato quasi “usa e getta”, come se il team di sceneggiatori avesse recuperato tutte le idee che giacevano negli archivi di script inutilizzati, abbia selezionato quelle che riteneva al contempo interessanti e troppo costose per reggere più di venti minuti, e abbia deciso di metterle in produzione per non farle morire seppellite da un’ingiusta polvere.
“Love, Death + Robots” è, in sostanza, l’equivalente cinematografico delle stories di Instagram: impatto scenico fortissimo, qualità eccellente, tempo di esposizione breve tendente al brevissimo, quasi totale disinteresse una volta conclusa la visione – salvo che non si sia rimasti davvero folgorati da qualcosa -, narrazione che risulta o troppo superficiale, o permeata di una profondità che, se non colta dai giusti occhi, risulta ugualmente banale. Questa impostazione produce una raccolta della quale si gode intensamente per un tempo molto corto, per passare oltre e poi oltre ancora, finché non ci resta che lo spettro di un piacere che ci sembra di aver provato, senza aver avuto il tempo necessario per sedimentare il ricordo, per empatizzare coi personaggi e interessarci alle loro vicende, per costruire una riflessione o una fantasia sulla storia raccontata.
La mancanza di un tema narrante è, poi, un fattore cruciale nell’assenza di un’anima nella raccolta, relegandola a una semplice cernita di “questo episodio mi è piaciuto, questo no, questo era palloso e dimenticabile”. Se il tutto è più della somma delle parti, qui non c’è una somma, e probabilmente non ci interesseremo a tutte le parti.


Su questo fronte, il discorso che fece Quentin Tarantino più di venti anni fa, anche se in riferimento ai prodotti hollywoodiani, rimane più attuale che mai: la gran parte delle storie di “Love, Death + Robots” non sono storie, sono situazioni sulle quali si incollano uno svolgimento e una tecnica visiva eccellenti, ma senza prendersi la briga di provare a indagare una complessità che si lascia solo percepire. Anche quando l’obiettivo è centrato, la sensazione di incompiutezza rimane, e ci si chiede per quale motivo un’idea o una prospettiva così interessanti non siano state snodate sin da subito su un più ampio raggio.
“Love, Death + Robots”, come ogni antologia, racchiude elementi apprezzabili e altri che ci lasciano delusi o indifferenti, ma a differenza delle raccolte in cui le storie brevi cercano di emergere per rimanere nel nostro cuore, oppure si incasellano in un più ampio quadro concettuale, qui non si è granché provato a collegare le storie tra di loro e a dare un’impronta al prodotto diversa dalla pura estetica. La brevità passa di fronte ai nostri occhi come un fattore inevitabile, precario ed evanescente, alla quale, forse, non penseremo più tra 24 ore.

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