Scrittrici allo specchio – Intervista a Gaia Magni

Scrittrici allo specchio – Intervista a Gaia Magni

Gaia Magni è una drammaturga, regista e attrice classe 1990. Diplomata all’Accademia Teatrale Veneta e ora residente a Milano, ha lavorato, tra i vari, con Paolo Nani, Pierpaolo Sepe e Antonio Syxty. Tra i suoi testi teatrali vi sono Figlie Uniche, Menzione al merito al Premio Internazionale Maria Cumani Quasimodo, Vietato Piangere, Intanto quegl’altri s’ammazan, Mr. Bes e La Vicina.

A: Gaia, come nasce la passione per la scrittura?
G: Nasce già dalle elementari. I temi avevano come oggetto storie reali, specifiche ma io preferivo inventare. Ricordo ad esempio un tema su un’esperienza nel cuore, io scrissi una storia particolare di una serata, durante una vacanza al mare con i genitori, nella quale loro si allontanavano e restavo sola a girare per le stanze dell’albergo e mi spavento a causa di un uomo. La storia era inventata – alla fine chiamano i miei genitori a scuola preoccupati! Poi durante l’accademia sentivo bisogno di recitare cose mie. Scrivere parole per me. Ora invece desidero scriverle per gli altri.

A: Scrivi storie principalmente con personaggi femminili al centro, sono scritti su di te?
G: Non scrivo per mettere in mostra le mie capacità attoriale, scrivo per i temi. Certo con dei limiti, non mi veniva da scrivere “per me” la storia di una donna sessantenne, questo tagliava una fetta di possibilità. In ogni caso nascono non dall’esigenza di vedermi in scena in un determinato modo ma dai temi. Ci sono dei vantaggi, so da cosa nasce ogni parola del personaggio, cosa lo muove… Ma anche degli svantaggi, ad esempio non saprò mai i punti di vista di qualcun altro, che su un testo potrebbero dare nuove sfumature.

A: In Intanto quegl’altri s’ammazan racconti la storia di una donna, una moglie, una sorella, dopo la prima guerra mondiale.
G: è il mio unico spettacolo che non nasce da un motore interiore ma da un’opportunità, una possibilità alla fine del mio terzo anno di accademia. Ci hanno fornito materiale sulla guerra: ho studiato le lettere dal fronte, i bollettini di guerra, i giornali di guerra… Volevo tirare fuori una storia da quel materiale, ho raccontato quella di una donna che è un granellino di fronte a un conflitto mondiale. Una donna convinta che l’uomo tornato dal fronte non sia suo marito, bensì un uomo diverso. Una donna egoista, capace di pensare solo alle sue cose d’innanzi a una tragedia. Lei si interroga sul “di chi sia la patria” ma di certo non la sente come sua. Poi lascio scegliere al pubblico se il testo è politico o meno.

A: L’uso del dialetto?
G: Avevo scritto il testo originariamente in italiano ma c’era bisogno del dialetto. Una necessità: storica, stilistica. Ho optato per quello di Magnago, che non parlo, mi ha aiutato mia nonna, frase per frase, continuando a criticare la mia poca padronanza… Insomma, ogni parola che provavo a ripetere otteneva come risposta un “lo dici male”! Poi in realtà si alterna all’italiano, quando la protagonista è di fronte al dottore, con il quale vuole apparire in un certo modo.

A: Vietato Piangere ha invece per protagonista Co, la coscienza di Anna, una donna alle prese con la tragica morte del figlio. Come nasce l’idea?
G: L’idea nasce da diversi errori fatti insieme alla mia collega Clara Mori, che ha lavorato alla regia del progetto. L’idea l’abbiamo raggiunta insieme. Non siamo partite dall’idea della coscienza, ci siamo arrivate. La prima stesura era un monologo psicologico con Anna come protagonista. Ma c’era discordanza tra un testo troppo psicologico e una regia onirica. Anche il secondo studio non andava. Sono ripartita con una nuova stesura partendo invece dall’idea registica: mettere la protagonista in uno spazio chiuso. Il nuovo testo aveva la coscienza, Co, al centro. Tra le mie fonti d’ispirazione non potrei che mettere Inside Out (dice sorridendo nda) ma anche Freud e Kant, in particolare ciò che riguarda la “cattiva coscienza”, dovuta ai sensi di colpa.

A: L’elaborazione di un lutto è un tema decisamente difficile.
G: Eh sì. La mia domanda è: se una persona che ha subito un lutto di questo tipo dovesse venire in sala come si sentirebbe? Cosa mi direbbe? È chiaro che ho paura di mancare di rispetto di fronte ad un dolore così grande. Io il rispetto lo metto tutto, nelle parole e nelle paure della mia protagonista. Non posso capirla fino in fondo ma credo che chi scriva non debba necessariamente aver vissuto tutto.

A: Nel lavoro emerge tanto il tema della solitudine.
G: sì ma più che di solitudine parlerei di isolamento. È capitato a una persona a me vicina. Una storia diversa ma sempre un lutto importante. Qual è il modo giusto di stare accanto a una persona che sta elaborando un lutto? Non c’è. In tanti rifiutano l’aiuto delle persone, in queste situazioni. È una solitudine che non è mai fisica, è che non senti le persone veramente vicine. Io l’ho vissuto e ti trovi a dire e fare cose sbagliate o inutili quando in realtà vuoi solo fare del bene.

A: Una delle cose più apprezzabili del tuo lavoro è la semplicità del linguaggio, è una scelta?
G: Cerco di scrivere come parlerei io. Non sono una che usa un linguaggio particolarmente complicato, nella vita di tutti i giorni. Per me la comunicazione così è più efficace. Non ho bisogno di ricerca, mi viene spontaneamente un linguaggio molto umile e molto vero.

A: Prima di salutarci, quali sono i tuoi progetti futuri?
G: Sto scrivendo con altre persone un testo su un dialogo tra un’anima e la morte. Mi piacciono questi temi sempre molto allegri! (ride, nda) Poi chissà, forse scriverò una Salomé prima o poi…

Leave a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*