Conversazione con Federico Buffa

Conversazione con Federico Buffa

Abbiamo incontrato Federico Buffa, fresco di tourneè sulle olimpiadi del ’36, che ci ha generosamente concesso 40 minuti del suo tempo. Invece che un teatro, la cornice del nostro incontro è stata un meno nobile McDonald della provincia di Como. Ci ha dato appuntamento proprio qui.

Si sa che molte domande di un’intervista nascono in corso d’opera, perché si formano sulla risposta che ricevi dal tuo interlocutore. Ma sappiamo anche che Buffa è un caso ancora diverso: la sua capacità magnetica di catturare con il racconto è un’arte, e come ogni arte va lasciata libera il più possibile. In teoria ci aspettava un’intervista sul suo spettacolo Le Olimpiadi del 1936, sulla tourneè appena conclusa, sulle sue impressioni di questo mondo così diverso dalla televisione, di cui lui è un vero maestro. In pratica è stata una lezione di storia. Che ha visto me come ignara studentessa e lui, Federico Buffa, docente. 

Lo scorso 31 marzo si è conclusa la tourneè de Le Olimpiadi del 1936 dopo quasi 3 anni…

Eh si, abbiamo debuttato nel gennaio 2015, e abbiamo fatto quasi 125 repliche. Adesso però dobbiamo cambiare e cercheremo di fare qualcosa d’altro. Questo andrà nel purgatorio degli spettacoli teatrali, sperando che almeno acceda al purgatorio.

[Sorride dicendolo e non posso fare a meno di pensare che non dovrebbe preoccuparsene. “Le Olimpiadi del 1936” è davvero un bello spettacolo: è coinvolgente e lascia nello spettatore un desiderio di volerne sapere di più. Il che è perfettamente comprensibile visto che la storia raccontata è davvero storia: le olimpiadi del 1936 si svolsero a Berlino, quando al potere c’erano Hitler e i suoi nazionalsocialisti.]

Hai parlato delle olimpiadi del ‘36, ma ci sono altre storie o altri eventi sportivi che hanno segnato la nostra storia?

Beh gli italiani pensano quasi sempre ai mondiali di calcio, che hanno vinto 4 volte. Ma anche le olimpiadi del ‘60 chiaramente hanno un valore enorme per il nostro Paese. L’olimpiade ha sempre avuto il valore del consesso delle nazioni; per esempio quella del ‘36 viene assegnata alla Germania nel ‘31 perché si vuole aiutare la Repubblica di Weimar, che all’epoca era in grandissima difficoltà, creando un evento di quell’importanza. Allo stesso modo l’olimpiade del ‘60 va all’Italia, l’olimpiade dopo al Giappone e quella del ‘72 di nuovo alla Germania. Ed eccoli in fila: i tre Paesi che hanno iniziato la Seconda Guerra Mondiale. Ma all’epoca non è che fosse così tanto un giro di affari. Lo diventerà  successivamente, e il triplete delle olimpiadi, una dietro l’altra, alle tre nazioni che avevano iniziato la guerra mondiale è significativo.

Quindi ritieni che sia conveniente organizzare un’olimpiade…

Sì, è conveniente da tutti i punti di vista, ma se lo chiedi al Comune di Roma ti risponderà sicuramente di no. Ma il Comune di Roma è fallito da anni, quindi capisco un sindaco romano che pensi all’attuale situazione finanziaria e che non se la senta di esporre la città. Perché non dimentichiamoci che in un paese come l’Italia, un’olimpiade sarebbe a carico dello Stato…

Pensi che non arriverebbero i soldi per finanziare l’olimpiade?

Sì, certamente. Il problema degli eventi è che bisogna fare un budget iniziale, solitamente pari a X, ma che quando ti ritrovi a pagare l’effettivo risulta di X+Y+ecc… e ricordiamoci che i soldi sono pubblici in Italia. L’olimpiade che sarebbe dovuta andare a Roma verrà assegnata o a Los Angeles o a Parigi. E se dovesse andare a Los Angeles sarà finanziata dai privati. Come quella dell’84: gli americani sono riusciti a ottenere le olimpiadi del centenario, che in un mondo normale sarebbero dovute andare ad Atene. Invece vengono assegnate ad Atlanta, perché le grandi aziende come la Coca Cola hanno messo una quantità di soldi privati che ha permesso al comitato organizzatori di andare addirittura in pari.

Beh possiamo dire che noi tutti questi soldi non li abbiamo…

Non li abbiamo per cultura, perché da noi i soldi li mette lo Stato. La cultura europea è principalmente basata sul supporto statale, mentre quella americana è esattamente dall’altra parte. Lo sport negli Stati Uniti è un fatto privato e quindi le leghe professionistiche sono private, cioè non ci sono i soldi dello Stato che ti coprono le diverse spese. Da noi invece lo Stato, tramite il CONI, sminestra milioni e milioni di euro ai diversi sport, ovviamente assegnandoli in proporzione al valore olimpico. Per esempio sport ritenuti piccoli o minori ricevono tanti soldi perché sono sport olimpici, quindi di maggior interesse.

Un po’ come funziona con il FUS per quanto riguarda il teatro?

Esatto, è lo stesso principio. Se non hanno i soldi dal Ministero, sia i piccoli che i grandi teatri d’Italia possono chiudere. Le iniziative private non esistono, gli americani invece non hanno una singola cosa finanziata dallo Stato e vivono nel senso opposto: stimolando l’iniziativa privata. Ad esempio, nel loro sistema a 21 anni non torni più a casa dopo il periodo universitario e se sai fare un mestiere o hai anche solo un’idea di mestiere, lì hai subito la possibilità di metterti alla prova. Mentre qua per riuscire a fare qualcosa devono decorrere anni, motivo per cui all’età in cui qui sei diventato una persona importante là sei già in pensione. Qui paradossalmente è stata inventata una figura antropologicamente inesistente: il single di ritorno: se mi sposo e il matrimonio fallisce, a 42 anni torno da mia madre. E in America vedi questi ragazzi che sono degli imprenditori a 23/24 anni, perché sono stati pensati per esserlo con tutti i limiti che questo genera dal punto di vista relazionale, ma al di là di questo è un posto dove tu sei stimolato perché sei messo in competizione subito, mentre il nostro sistema è non-competitivo. E questo avviene in tutti i settori, dall’imprenditoria allo sport.

Hai spesso paragonato le imprese sportive all’epica: quando un evento sportivo diventa qualcosa di letterario?

Chi ha un’epica storica, rintracciabile, tipo gli europei, difficilmente riesce a interpretare lo sport in maniera epica. Sono gli americani i primi a pensare a una visione epica dello sport. Ma questo per una carenza di epica propria. Secondo Borges non avendo una propria epica di cui possono parlare liberamente, hanno fatto sembrare la conquista del West, cioè uno dei più impressionanti genocidi della storia dell’uomo, un atto epico. Sostanzialmente hanno trovato un’alternativa fondamentale: prima Hollywood e poi lo sport, che in realtà fa parte dello stesso humus mentale.

Anche il cinema dunque…

Una delle mie altre critiche al mondo dello spettacolo italiano è verso il cinema italiano, che non è mai stato in grado di fare un film di e sullo sport. Mai. Nessuno ha mai fatto un film di sport che non fosse di parodia. Nessuno ha mai fatto un film sul Grande Torino ad esempio o sulle Olimpiadi del ‘60. C’è un buon documentario a riguardo, ma sostanzialmente è un documentario. Un film nessuno ha il coraggio di farlo. E mi domando perché il cinema italiano, che su 100 film prodotti fa uscire 80 commedie più o meno simili, non trova per esempio il tempo per fare un film su Ondina Valla. Perché? Perché vuol dire che i produttori pensano che questo film non sia adatto all’audience italiana, perché li ritengono troppo costosi, quando in realtà il grosso del lavoro si fa in post-produzione. Ormai puoi permetterti in computer grafica di fare quello che vuoi. Anche di ricreare uno stadio da 100 mila persone senza che ci sia realmente dentro nessuno. In realtà c’è un’assenza di motivazioni verso il cinema sportivo e allora ancora una volta nella cultura statunitense ci sono i film più importanti della storia dello sport, da Toro scatenato ai diversi film sul basket, sul baseball, sul football. Film che hanno fatto il giro del mondo e hanno attratto milioni e milioni di spettatori verso una cultura sportiva che non era la loro, perché raccontata con un passo magneticamente epico. Mentre il cinema europeo, quello italiano in particolare, se n’è disinteressato. Non lo capirò mai. 

Quindi pensi che sia più facile per loro riuscire a celebrare lo sport?

Si, perché hanno una visione. Innanzitutto lo sport è nella scuola, quindi nascono con l’idea di sport. Secondo: hanno un’assenza di epica che compensano nei due settori del cinema e dello sport. Quando devono raccontare lo sport lo fanno con passione, con un passo in più. 

Possiamo dire che il potere politico ha usato lo sport?

Beh l’uso politico con noi nasce a Berlino ‘36 ed è ovunque. In quasi tutti i Paesi che hanno bisogno di spostare l’attenzione verso una componente nazionalistica e lo fanno usando lo sport. Ancora adesso, direi. La nostra Costituzione del ’48 in realtà non si cura neanche della parola sport, proprio perché invece negli anni precedenti lo sport aveva un forte veicolo. Se tu leggi i resoconti delle Olimpiadi del ’36 l’Italia è quarta nel medagliere: è impegnata nella sua avventura coloniale in Africa, e se tu leggi i paragoni che vengono fatti tra i nostri atleti e i nostri soldati riesci a scorgere lo stesso vigore tra i primi che vincono parecchi ori, e i secondi che combattono. Lo sport nel ventennio fascista ha avuto un enorme valore politico. Ed è proprio quello forse il motivo per cui la Costituzione del ’48 rinnega il valore dello sport, indipendentemente dall’uso che se ne voglia fare.

Può succedere ancora oggi che la politica si avvalga dello sport?

Certamente. L’ultima nazione che l’ha fatto in maniera però smaccata è stata la Germania Est. Vincere medaglie d’oro per la Germania dell’Est era la simbolizzazione di un sistema aggressivo e funzionante e di una gioventù particolarmente forte. Specialmente per quanto riguarda le donne, perché i tedeschi vincevano principalmente nelle categorie femminili. Il doping viene introdotto dai tedeschi negli anni ’30, in occasione appunto delle olimpiadi del ‘36. Le storie raccontate dalle atlete della Germania Est e le malformazioni visive che sono derivate per come le hanno dopate sono agghiaccianti. E sono episodi degli anni ’80. Le hanno dopate e le hanno praticamente rese dei maschi, e dopo 10 anni di doping di stato, dove non sapevano neanche cosa prendevano, gli effetti sono stati tragici. E da lì sono stati introdotti controlli sulla mascolinità degli atleti, cioè vengono fatti dei test adesso, che sono più o meno iniziati in quel periodo, per controllare quanto testosterone hai in corpo.

Come vedi cambiare l’approccio delle ragazze allo sport?

La spedizione di Berlino ‘36, che tra l’altro porta questa medaglia storica ovvero la prima medaglia d’oro vinta da una donna italiana, segna la divisione. Da lì, da Ondina Valla e Claudia Testoni, secondo me inizia la storia dello sport femminile italiano. Sai, proprio mentre era in corso lo spettacolo ho ricevuto la visita dei figli della Valla e della Testoni: le due sportive principali di Berlino ’36. Erano amiche-rivali: la prima vince appunto l’oro nella gara 80 ostacoli mentre la Testoni arriva 4^. La Valla sarebbe dovuta andare anche alle olimpiadi precedenti, quelle del ’32, ma il Vaticano si oppose. E così la spedizione a Los Angeles venne vista non solo molto lontana e dispendiosa, ma anche sconveniente e inopportuna per un’unica ragazza. Ma nel ‘36 sono troppe le ragazze italiane che possono competere e quindi è l’anno che cambia per sempre la storia dello sport femminile italiano. Anche se sono passati 81 anni lo sport resta un problema, perché lo Stato Italiano ha abdicato al suo dovere di inserirlo nelle scuole e di rendere comunque obbligatoria l’iniziazione allo sport. Il che non significa poi dover fare la sportiva tutta la vita, ma dovrebbe servire a dare un’idea della cultura dello sport. Da qualche anno è stato istituito il Ministero Dello Sport, ma non è possibile che l’Italia abbia pensato al valore educativo dello sport così tardi, lasciando alle società di promozione sportiva il compito di provvedervi. Questo crea dei problemi, perché la cultura sportiva in Italia è già modesta di suo, la cultura femminile ancora di più. Quindi a 80 anni di distanza dalla medaglia d’oro della Valla, un numero secondo me misero di ragazze italiane pratica sport. L’iniziazione allo sport è sofferta, non divertita, non condivisa con le ragazze con cui si cresce e io penso che lo Stato italiano sia molto colpevole in questo, perché al contrario di altri, non si è interessato del valore sociale dello sport. Questo non fa che peggiorare la situazione perché oggi la maggior parte delle ragazze fanno questo gesto [mima lo scorrere di un dito sullo schermo di uno smartphone] che di sportivo ha poco.

Tu hai un modo molto particolare di raccontare. Pensi che questo potrebbe avvicinare le persone al teatro?

L’idea è quella di trattare degli argomenti che possano avere un secondo sfogo, cioè di non raccontare mai una storia fine a se stessa, ma qualcosa che sia collocato nel suo periodo storico con le conseguenze che ne derivano. Per cui mi piace sempre vedere se posso raccontare una storia che si inserisca in un momento e che questo possa stimolare un approfondimento. Specialmente se hai il privilegio di essere seguito da un pubblico giovane. Questo in psicologia si chiama affidamento di valore ovverosia: tu ti fai raccontare una storia che non sentiresti se non fosse lui o lei a raccontartela e magari non ti piacerà comunque, però ti metti nella condizione di fartela raccontare anziché dire “no” a prescindere.

Perché passare da un mezzo come la televisione a quello del teatro?

Perché non c’è paragone. Certo la televisione è divertente, emozionante, ma anche faticosa come tempistiche. Ho fatto l’esperimento quando ero a Roma con lo spettacolo all’inizio di novembre. Dovevo girare un altro pezzo della storia di Muhammad Alì, quella sulla olimpiade di Roma e visto che eravamo lì abbiamo girato davanti al Palazzo dell’EUR, proprio dove si svolsero i match di Cassius Clay. Era una scena, che poi in televisione si trasforma in 2 minuti di video, e sono dovuto rimanere sul set dalle 14 alle 19. Avrei fatto in tempo a fare due volte Le Olimpiadi e sarebbe stato meno faticoso.

Quindi ti stai avvicinando molto di più al teatro…

Beh mi piace molto di più. Ovviamente non puoi abbandonare la televisione, perché se la perdi fai fatica a portare la gente a vedere uno spettacolo teatrale.

E ora che la tourneè è finita a cosa ti dedicherai?

Farò qualche piccola cosa di transizione, e poi speriamo di fare un altro spettacolo ovviamente completamente diverso, dove possiamo coinvolgere di più il mondo giovanile e dove io non debba fare l’attore …

Perché è difficile fare l’attore?

Alla mia età è un po’ improbabile, però se hai questo privilegio di essere seguito da un pubblico giovane allora, anziché fargli subire passivamente una storia di 80 anni fa, hai il dovere di farlo in teatro.  Tra l’altro lo spettacolo aveva una quantità di informazioni eccessiva. Se tu prendi un periodo storico come la Seconda Guerra Mondiale e racconti così tante cose devi anche mettere in preventivo che i tuoi interlocutori non abbiano tutta questa dimestichezza e che gli stai fornendo troppe informazioni…

Gli dai più informazioni di quante non potrebbero trovare sui loro libri di scuola

Oddio magari sui libri le trovi ma secondo me proprio non arrivano a studiarlo, vuoi per tempistica, vuoi per carenze varie. Un conto poi è dare questa mole di informazioni a qualcuno che conosce la storia per un buon 50%, un altro è invece darle a qualcuno che arriva al massimo a un 10%. Vuol dire colmare una lacuna pari al 90%. È impensabile! Dovrebbe essere uno spettacolo teatrale non una lezione di storia che si trasforma quasi in una slavina di informazioni.

 

A questo punto prova a farmi una domanda da maturità: “Spitaleri mi può fare un’analisi comparata tra la situazione europea all’inizio degli anni 30 e la situazione europea A.D 2017?

 

Per fortuna sono sempre stata brava ad arrampicarmi sugli specchi. Perché, chi glielo dice che il problema dei giovani d’oggi non è tanto studiare la storia passata quanto informarsi su quella attuale?

Come fanno solo i professori migliori, si offre di aiutarci anche dopo la lezione: “Se ti servono rabbocchi fammelo sapere”.

Ma proprio non servivano: quel che invece occorrebbe al nostro blog è una categoria “Federico Buffa“. Perché la categoria “Sport“, in questo caso, proprio non basta.

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