“Call the Comet”: Johnny Marr a Milano presenta il suo universo parallelo

“Call the Comet”: Johnny Marr a Milano presenta il suo universo parallelo

Tutto pronto per l’arrivo a Milano di Johnny Marr. Non solo stasera si esibirà al Fabrique per promuovere la sua ultima fatica discografica “Call the Comet”, ma sarà prima (alle 12) da Feltrinelli RED in viale Sabotino per incontrare i fan e firmare le copie della sua autobiografia, “Set the Boy Free”, uscita lo scorso anno anche in lingua italiana. Mica finisce qui: giusto in questi giorni il canale YouTube degli Smiths, la sua creatura più celebre e importante per la musica indie (e non) britannica (e non), è stato rimpolpato con materiale audio e video da leccarsi i baffi e l’ex sodale Morrissey, finalmente, fa parlare di sé per un nuovo singolo, “Back on the Chain Gang” – cover di un pezzo tra i più celebri dei Pretenders di Chrissie Hynde, datato 1984 – e non per una sparata delle sue (se ne perde sempre più il conto). Dici Manchester e viene in mente la sua Rickenbacker, la sua maestria nel dipingere melodie ora sferzanti ora malinconiche, e la sua capacità di mettersi continuamente in gioco.

Non dev’essere per niente facile essere Johnny Marr: non solo perché gli tocca rispondere da trent’anni alla stessa domanda su quando e se si riformeranno gli Smiths, ma in primo luogo perché con un curriculum come il suo alzare l’asticella con un nuovo lavoro o progetto è roba da supereroi. Quando ti ritrovi nel pantheon di quel brontolone di Noel Gallagher, c’è da sudare freddo, lavorare duro e ponderare ogni mossa con la massima attenzione.

Chi è Johnny Marr? Per rispondere alla domanda vi forniamo una gustosa playlist che cerca, in un’ora e mezza (ricordate le C90 di una volta?), di ripercorrere trentacinque anni di onorata carriera attraverso i suoi modern classics e le collaborazioni più illustri, da Bryan Ferry ai The The, dai Talking Heads ai Pet Shop Boys fino agli Electronic – che lo stesso Marr fondò con il conterraneo Bernard Sumner, già nei Joy Division e nei New Order – e ai più “giovani” Cribs, Modest Mouse e Charlatans. Ma una risposta convincente può arrivare proprio da “Call the Comet“.

Escludendo “Boomslang”, pubblicato a nome Johnny Marr and the Healers nel 2003, quello che è uscito quest’anno è il terzo lavoro solista dell’artista mancuniano: laddove la prima doppietta è arrivata nell’arco di due anni, qui siamo di fronte a un bouquet di canzoni legate da un sottile filo conduttore e ispirate da una serie di eventi che hanno scosso l’autore e buona parte dell’intero mondo (la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti e la Brexit) e dei suoi equilibri.
Marr, chiaramente, non è ingenuo: sa benissimo che la retorica è un’insidia pronta dietro l’angolo ed evita un album incazzato, “duro e puro”, rifugiandosi invece in un universo parallelo, un mondo “altro” in cui potersi rispecchiare e il cui motore è costituito dai valori in cui ancora crede. Johnny Marr - Call the Comet (Warner Bros.)Registrato a Manchester insieme allo storico collaboratore e chitarrista James Doviak, come i precedenti “The Messenger” e “Playland”, “Call the Comet” è un esempio di scrittura di qualità, fluida, eclettica e senza tempo, incurante delle mode che vanno e vengono in uno schiocco di dita, buona per oggi come poteva essere perfetta dieci o vent’anni fa.

Brit-pop, new wave, indie-rock con richiami più o meno espliciti al suo glorioso passato – l’ispirazione sarà anche stata “Dancing Barefoot” di Patti Smith, ma è impossibile non riconoscere elementi di “There Is A Light That Never Goes Out” durante l’ascolto di quel gioiello che è “Hi Hello“, così come ai più tornerà in mente “Get the Message” degli Electronic al passaggio di “A Different Gun” che ha il compito di far calare il sipario – si uniscono a qualcosa di più ardito e inusuale.
Se è una robusta architettura chitarristica a sorreggere “Rise”, nella trascinante “The Tracers” è una batteria che arriva direttamente dai primi Echo and the Bunnymen di “The Cutter” a coalizzarsi con la Jazzmaster e il basso wave di Iwan Gronow per suonare classica senza apparire stanca, vetusta o già sentita. Se gli Horrors ci riescono, perché mai il gioco non dovrebbe funzionare con Marr?

Gli Oasis incontrano i T-Rex per una seconda volta (dopo “Cigarettes and Alcohol”, ho-hum) in “Hey Angel”, mentre “New Dominions” suona come una “Bullet the Blue Sky” intrappolata in uno dei primi dischi degli Human League. Mondi che sulla carta dovrebbero darsi sdegnosamente le spalle si fondono insieme con successo, come il clash tra i New Order anni 2000 e John Mellencamp che fa risaltare, bella e fiera, “Day In Day Out” (manca forse giusto la voce e la personalità del fratello-coltello Moz per renderla un evergreen davvero compiuto).
Walk Into the Sea” è quanto più sperimentale, ambizioso e d’atmosfera si possa trovare in “Call the Comet”, che fino alla fine sciorina brani robusti, generosi di earworm come pochi altri Lp di questo 2018 che si avvia verso la conclusione: “Bug” si inserirebbe senza fatica nel repertorio degli ultimi Crowded House, “Actor Attractor” invece ha l’ardire di insegnare ai Primal Scream come si scrive un pezzo electro-rock dei Primal Scream (“forever we can live to the limit / forever we can give to the limit” è la frase topica) e “Spiral Cities” torna alle sonorità new wave che erano il marchio di fabbrica dei Simple Minds ai tempi di “Someone Somewhere in Summertime”, aggiornandole con gusto.
Di sicuro effetto nelle “wave nights”, tra una “I Will Follow” e una “A Forest”, il tour de force di “My Eternal” viaggia a vele spiegate tra post-punk e suggestioni psichedeliche à-la Tame Impala. Non c’è un solo brano da cestinare, cosa rara in un disco che dura quasi un’ora di un musicista che potrebbe adagiarsi sugli allori. E decide di non farlo.

“Call the Comet” non è perfetto, ma dimostra che anche nei momenti in cui ha la meglio il “mestiere” ed è azionato il pilota automatico ci sono embrioni di idee da sviluppare in un prossimo lavoro, o con un’altra band, cambiando qualche coordinata. Senza sermoni, costringendoci a leggere tra le righe e a stare attenti ai passaggi, Johnny Marr si esprime al meglio delle sue potenzialità e ci porta per mano nella sua dimensione, ci scuote, ci diverte, ci accarezza e ci schiaffeggia, ci fa sognare e ci riporta bruscamente alla realtà. Vi sembra poco?

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