Come gli Avatar stanno salvando il metal e la musica concettuale

Come gli Avatar stanno salvando il metal e la musica concettuale

L’epoca d’oro del metal è ormai passata. Non torneremo mai, forse, all’epoca dei Metallica, dei Megadeth, Anthrax, Slayer, Ronnie James Dio, Iron Maiden e compagnia bella.
La carica espressiva del metal pare essersi esaurita, così come l’effetto novità e, anche se questa frase fa sembrare il tutto proferito da un anziano, i tempi sono cambiati. La ribellione giovanile, sempre in atto, ha trovato sfoghi, così come modelli, modalità e mezzi, diversi.
Uscendo dalla logica del classico metallaro: “tutto ciò che non è metal fa schifo”, si afferma che è innegabile come ormai altri generi e altri artisti oggi ricoprono tale ruolo. Il fenomeno della trap, per esempio, possiede uno spirito di ribellione e trasgressione che tanto piace ai ragazzi degli ultimi tempi. Non a caso, i valori degli artisti trap ben si sposano con la volontà di divertirsi senza limiti di un adolescente del terzo millennio.
Quando i Metallica suonavano Kill ‘em All, ci si sfogava in un’altra maniera, così come negli anni ’60 ci si divincolava dalla briglia dei padri in tutt’altro modo. Basti pensare al manifesto della musica e della cultura degli anni ’60: The Rocky Horror Picture Show, che mette in scena nel miglior modo possibile la metafora del cambiamento generazionale in Hot Patootie Bless My Soul, con Meatloaf nel ruolo della caricatura di Elvis Presley, il simbolo del Rock ‘N Roll classico, che viene letteralmente messo nella cella frigorifera dagli eccentrici occupanti del maniero.

Siamo nel 2018 ed è passata molta acqua sotto ai ponti. Anche se non è stato girato alcun film in cui i Metallica o gli Iron Maiden vengono messi sotto ghiaccio, sono nati e tramontati generi e sottogeneri, con annesse sottoculture. Sono passati anni dal fenomeno del black metal, dai tutoni larghi del NU Metal nei primi anni 2000, dalle interviste a Piazza del Popolo a Roma, dagli emo e i semibbrudal.

Si può quasi dire che il metal, con il fossilizzarsi sempre sugli stessi cliché e le stesse sonorità, stia morendo. Un gruppo, a mio avviso, sta cercando di produrre qualcosa di veramente nuovo e di valore, qualcosa che scrosti la patina creatasi negli ultimi anni, di veramente originale, creativo e fresco.
Per poterlo esaminare da vicino, dobbiamo spostarci in Svezia, più precisamente a Goteborg e bisogna tornare indietro nel tempo fino al 2002. Qui nasce il gruppo Avatar, guidato dal poliedrico ed eccentrico Johannes Eckerstrom.

Una storia in ascesa

La nascita del gruppo avviene agli inizi del terzo millennio. Un primo nucleo del gruppo, però, risale all’anno prima, il 2001, con un nome diverso, Lost Souls, e un vocalist diverso, Christian Rimmi. Il progetto non dura molto a causa delle classiche divergenze artistiche.
I fondatori degli Avatar veri e propri sono il mitico batterista John Alfredsson, esule dal progetto Lost Soul, e l’eccentrico chitarrista Jonas Jarlsby, oggi conosciuto come Kungen. Assieme agli altri, Johannes Eckerstrom, John Alfredsson Henrik Sandelin e Tim Öhrström, formano il gruppo chiamato “Avatar”. Il nome risulta un po’ infelice, in quanto risulta comune a molti gruppi power metal (che, tra l’altro, non c’entrano assolutamente nulla con gli “Avatar” svedesi).


Pubblicano due singoli, My Shining Star e And I Bid You Farewellche confluiranno in Thoughts of no Tomorrow, il loro primo album, uscito solo nel 2006.
La scalata verso il successo è avvenuta tramite i concerti. Il gruppo ottenne visibilità esibendosi nella zona di Goteborg e poi divenendo il gruppo di apertura per band decisamente più grosse come In Flames e soprattutto gli Stone Sour, uno dei due gruppi in cui canta il famoso vocalist americano dell’Iowa Corey Taylor, membro portante dei celeberrimi Slipknot, uno dei complessi metal più famosi e influenti degli ultimi vent’anni. Senza contare i tour assieme ai Nine Inch Nails e Obituary.

I “veri” Avatar: Feathers & Flesh e il racconto di una storia

Emblematica la copertina di questo Feathers & Flesh

Il 13 maggio 2016 diventa una data importante per il circo di Goteborg: viene rilasciato il loro primo concept album, Feathers & Flesh. Il loro stile si evolve e si arricchisce, partendo da un melodic death metal e arrivando a qualcosa di mai sentito prima. Gli svedesi arrivano a coniugare con sorprendente naturalezza la brutalità del death metal con qualsiasi altro genere o sottogenere esistente. Dal groove al NU metal, l’album è vario e ricco di situazioni al limite dell’assurdo. The Eagle Has Landed è il perfetto esempio di come si possa legare un genere così aggressivo e brutale con situazioni buffe e comiche, per non dire bislacche. Il brano appena citato mostra, nel suo videoclip (tra l’altro registicamente molto fresco e interessante), una situazione da carosello, una giostra animata e colorata e dai toni assieme gioiosi e grotteschi. Tale brano è il vero e proprio capolavoro del disco, poiché mette in scena una delle prestazioni più alte del gruppo. Il cantante, Johannes Eckerstrom, dà prova di una versatilità vocale senza precedenti, in grado di passare dal growl al pulito con estrema nonchalance senza mai risultare forzato e senza rendere incomprensibili delle lyrics che ben presto vi ritroverete a canticchiare con estrema facilità. Il resto del disco è un continuo cambiamento. Ogni brano riesce assieme ad essere collegato e totalmente altro rispetto al precedente o il successivo. La varietà gioca in casa quando si parla di questo album e i generi musicali diventano un grande parco giochi per gli Avatar.
For The Swarm, nel suo esser breve, risulta l’episodio più “pesante” ma assieme più bizzarro dell’esperienza. Peccato che duri solo due minuti scarsi. Il resto del disco si aggira su sonorità sempre diverse e suggestioni molto varie e sorprendenti. Il tutto è accompagnato dall’incredibile competenza tecnica di esecuzione e composizione dei musicisti e del vocalist che non sbaglia una singola linea vocale.

Ciò che, invece, risulta più innovativo e importante di Feathers & Flesh, è il fatto che ci si trova davanti ad un concept album. Il disco, infatti, è concepito per essere ascoltato seguendo l’ordine della tracklist e il mood che il gruppo ha voluto trasmettere è proprio quello di una storia di altri tempi, una leggenda di cui si narra in rappresentazioni teatrali. Per cui, ascoltare l’album leggendo il libretto allegato nella confezione risulta l’esperienza ottimale per godersi il disco.

Il gruppo ha sempre mantenuto lo stile eccentrico del circense. Un ottimo tocco per la personalità della band

La storia raccontata dagli artisti svedesi è molto semplice e ricalca le fiabe dello scrittore Jean de la Fontaine, molto noto nel XVII secolo come autore di fiabe moraliste. La trama è molto semplice: un gufo vuole impedire al Sole di sorgere e, per conseguire il suo obiettivo impossibile, si oppone al mondo intero. La storia è concepita per essere narrata brano dopo brano, minuto dopo minuto e, con l’incedere delle tracce, gli Avatar utilizzano il comportamento del protagonista animale per mettere in luce tratti e atteggiamenti tipici dell’essere umano. Ogni tratto del gufo è fondamentale: la sua paura del cambiamento e il non voler mettere a nudo le proprie debolezze, per poi arrivare alle promesse vuote di chi brama e presume la propria onnipotenza.

Immaginate quindi di leggere il libretto dell’opera e, alternando, ascoltare i brani: quella degli Avatar si rivela essere un’opera d’arte che dimostra tutt’altro che la morte di un genere ma, anzi, l’incredibile versatilità di un gruppo che ha dimostrato genio compositivo, fantasia e, diciamocelo, stile da vendere.

Benvenuti nell’Avatar Country

Quest’ultimo album, Avatar Country, è appena stato rilasciato. Il gruppo ha pubblicato su YouTube tre video promozionali di tre brani tratti dall’album: A Statue of the King, The King Wants You, The King Welcomes You to the Avatar Country. Avrete capito dalla ridondanza della parola “King”, che appare in ogni traccia dell’album, comunica qualcosa. Ebbene, tale album nasce dall’esigenza degli Avatar di raccontare e, soprattutto, di raccontarsi. Tutta la storia del gruppo è raccolta in questo secondo concept album che vede come protagonista Jonas Jarlsby, chiamato appunto “Kungen“, ovvero “Re”. La sua figura imponente, e a tratti autorevole, risulta vincente, soprattutto per il ruolo che ha giocato nella costituzione del gruppo dopo la sua esperienza con il progetto Lost Soul.
Nella stesura, come anche nella messa in scena dei videoclip, il gruppo di Goteborg mette in chiaro fin da subito lo stile dell’album: Avatar è una nazione che si muove all’interno di un bizzarro mondo immaginario composto da elementi tipici dell’heavy metal, parti di fantasy e di mitologia nordica. Lo stesso Kungen sembra un re vichingo, con una foltissima barba e capelli intrecciati.

Kungen con la corona e la tipica espressione folle sul volto di Eckerstrom: un altro punto forte del gruppo è soprattutto la presenza scenica

Inutile dirlo, ma l’album risulta ancora una volta molto vario. Con questo disco, gli Avatar hanno dato prova di un eclettismo senza precedenti, sapendo regalare brani che si contaminano con il country (lo stesso Country che ritorna nel titolo e che completa il cerchio) sorprendentemente ballabili e al contempo toccando le vette delle più epiche sfumature del power metal in pieno stile Blind Guardian o Stratovarius. “King After King” e “The Legend of the King” vi sorprenderanno, in tal senso.
Non mi soffermo ulteriormente sulle capacità vocali di Eckerstrom, che si dimostra di nuovo in grado di coprire ogni angolo dello spettro vocale senza sbagliare mai. In “The King Welcomes You to the Avatar Country” si riesce a sentire quasi un Bon Scott, o un Brian Johnson, mentre invece in brani come “King’s Harvest“, il buon vocalist ritorna il Johannes dei tempi di Black Waltz, con una voce potente, graffiante e mai fastidiosa.

Non siamo, però, agli stessi livelli di Feathers & Flesh. Si tratta di due linguaggi e storie diverse, è vero, ma il fattore novità viene meno.
E’ senza dubbio innegabile che i generi musicali siano dei giocattoli nelle mani di questo gruppo di virtuosi.
Possiamo stabilire che il metal è morto? Diciamo che finché vi saranno gruppi come questo, come gli Avatar, che puntano ad essere creativi, a giocare con i vari generi e a contaminare il genere con altre forme di intrattenimento, no.
Gli Avatar avrebbero potuto mantenere lo stesso sound death metal e proseguire dritti per la loro strada, uniformandosi a decine e decine di gruppi che non cambiano scala da anni ma hanno tentato la scommessa. Non certo senza cognizione di causa, ovviamente, non senza una solida base di competenze e abilità d’esecuzione.
Il metal non è morto, e non morirà, finché qualcuno troverà il modo di creare questo genere di prodotti e, soprattutto, osando e scommettendo.
Ancora una volta, abbiamo assistito all’incredibile versatilità del genere musicale in questione che, a mio avviso, ha ancor qualche cartuccia da sparare e qualche frase da dire.

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