“Comunità immaginate”. Sociologia del tifo

“Comunità immaginate”. Sociologia del tifo

Ma… non lo so, forse è qualcosa che non puoi capire se non ci sei dentro. Come fai a capire quando mancano tre minuti alla fine e stai due a uno in una semifinale e ti guardi intorno e vedi tutte quelle facce, migliaia di facce stravolte, tirate per la paura, la speranza, la tensione, tutti completamente persi senza nient’altro nella testa… E poi il fischio dell’arbitro e tutti che impazziscono e in quei minuti che seguono tu sei al centro del mondo, e il fatto che per te è così importante, che il casino che hai fatto è stato un momento cruciale in tutto questo rende la cosa speciale, perché sei stato decisivo come e quanto i giocatori, e se tu non ci fossi stato a chi fregherebbe niente del calcio? E la cosa stupenda è che tutto questo si ripete continuamente, c’è sempre un’altra stagione. Se perdi la finale di coppa in maggio puoi sempre aspettare il terzo turno in gennaio, che male c’è in questo? Anzi, è piuttosto confortante, se ci pensi”.

Questa frase, tratta dal film cult “Febbre a 90°”, è diventata ormai iconica per molte persone, anzi tifosi, che ogni fine settimana soffrono e gioiscono per le sorti della propria squadra. Una frase che, se si è dalla parte del tifo, fa venire un accenno di pelle d’oca e si prova un po’ di invidia per non averla partorita di propria penna; se si è invece dalla parte opposta, cioè da quella che vede il calcio come un gioco, un elemento sempre di contesto e mai centrale nella vita delle persone, leggendola si trova sempre più convinzione che i fanatici del calcio siano esagerati e che le proprie energie ( e denaro) andrebbero spese in maniere più produttive, soprattutto superata la fase adolescenziale. Il mio intento oggi è quello di trovare un punto di incontro: far capire ad entrambe le categorie, coloro che vivono e coloro che osservano da fuori il calcio, perché un genio della scrittura come Nick Hornby abbia deciso di dedicare un intero libro (e poi film) al calcio, andando oltre la banalità degli slogan da stadio e analizzando gli aspetti sociologici che caratterizzano il gioco più bello del mondo. Per farlo è necessario introdurre il termine: Comunità immaginata.

Benedict Anderson, sociologo irlandese naturalizzato statunitense, occupandosi della formazione delle ideologie nazionalistiche, ha coniato il termine Comunità immaginata. Con questa espressione Anderson intende differenziare la comunità immaginata da quella effettiva perché essa non si fonda su una relazione personale diretta tra i suoi membri, ma solo sulla percezione di essere parte di una comunità di affini. Questa affinità può essere data da elementi come una lingua in comune, una religione uguale o da un senso comune del destino che associa gli individui. Questo secondo Anderson è un elemento che sta alla base della nascita del Nazionalismo nei vari paesi, una comunità immaginata che non corrisponde ad una esperienza reale. Le tifoserie del calcio si basano proprio su questo elemento, a cui aggiungono, in alcune occasioni, anche relazioni faccia a faccia. I tifosi delle varie squadre tendono a riconoscersi e sentirsi parte della stessa grande “famiglia” anche senza conoscersi, ma semplicemente in quanto si appartiene ad una comunità di affini. Nei gruppi di tifosi si sperimenta concretamente questa appartenenza. In questi termini, si condividono con gli altri sentimenti, evocazioni mitologiche, narrazioni epiche, positive e non, che vengono trasmesse di generazione in generazione dai tifosi. Si accentua il senso di opposizione con i nemici, l’opposizione “Noi-Loro”, “amico-nemico”. Il calcio, e le sue tifoserie, è caratterizzato da un continuo sistema di alleanze e rivalità; ogni club ha il proprio rivale numero uno, spesso l’altra squadra cittadina, e questo aspetto esalta il senso di appartenenza dei tifosi. Alla base di tutto c’è la cosiddetta equazione del beduino: l’amico del mio amico è mio amico, il nemico del mio amico è mio nemico, l’amico del mio nemico è mio nemico, il nemico del mio nemico è mio amico.

In passato la netta rivalità tra tifoserie aveva ragioni anche sociali: spesso ad un determinato club appartenevo tifosi con un ben preciso rango sociale. A Milano i tifosi dell’Inter erano i “Bauscia”, la borghesia cittadina, mentre quelli del Milan erano i “Casciavit, l’anima più proletaria della città. A Roma i tifosi romanisti si definivano i “romani de Roma”, i ceti più popolari e il cuore pulsante della città, con un’ideologia politica tendente alla sinistra. Quelli della Lazio era invece la squadra degli ambienti più agiati, dei “parioli”, i borghesi e con idee più di destra. A Torino il “Toro” era la squadra dei cittadini, degli operai della FIAT, mentre la Juventus era la squadra degli immigrati spesso dal sud, elemento che aumentava ancora di più la rivalità con l’altro club cittadino. Questo non è un fenomeno solo italiano: in Spagna Barcellona è stata spesso teatro di duri scontri tra l’anima catalana della città, rappresentata proprio dal Barcellona, e quella più legata alla monarchia castigliana e ad una maggiore povertà, l’Espanyol. Addirittura di stampo religioso la rivalità tra le due squadra di Glasgow, in Scozia: i Rangers e i Celtic. I primi sono una squadra di stampo protestante, i secondi cattolici. Elemento questo che ha spesso tinto col sangue le partite tra queste due squadre, in nome di una differenza religiosa che fatica a trovare una reale giustificazione. Ovviamente con il passare degli anni queste differenze sociali tra i gruppi di tifosi si sono via via sempre più assottigliate, rendendo ormai le tifoserie più omogenee e mantenendo solo a livello di narrazioni tali differenze.

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La rivalità tra tifoserie spesso è sfociata nella violenza, in vere e proprie guerriglie che non hanno risparmiato morti. Alla base di questo elemento c’è uno dei tratti che meglio identificano le comunità immaginate: la difesa del territorio e dei propri simboli. La tifoseria, promossa al livello di fede e di destino comune, va difesa a tutti i costi, partendo dal controllo del proprio territorio, che in uno stadio è rappresentato dalla Curva da cui si assiste alla partita. Quella parte di stadio diventa una piccola “Patria”, una terra comune che va quindi difesa e onorata. L’avvento della televisione, e quindi la possibilità per le tifoserie di essere viste da tutti, anche da chi non è presente allo stadio, ha aumentato questo “narcisismo” dei gruppi di tifosi, che spesso si traduce in elementi di spettacolo e scenici, con coreografie o striscioni goliardici, ma che talvolta può eccedere nello scontro fisico.

Il calcio attira attorno a sé un così ampio pubblico di appassionati perché ha caratteristiche che lo rendono diverso da qualunque spettacolo e da qualunque rappresentazione collettiva. Un tifoso di calcio non è un semplice consumatore di eventi, la sua passione non nasce e muore nell’arco di una partita, ma lo accompagna tutti i giorni. Non è accomunabile ad un appassionato di teatro o di cinema. La passione, il senso di appartenenza a una comunità, la fedeltà a certi colori sono elementi essenziali della vita di un tifoso; sono elementi che porta con sé e che lo caratterizzano tutti i giorni della propria vita. Una persona può cambiare orientamento politico, professione, condizione economica, gusti e stili di vita, ma non l’appartenenza alla squadra del cuore. E’ molto più probabile, addirittura, trovare qualcuno che abbia cambiato fede religiosa più che calcistica. Il calcio affascina per la sua capacità di associare l’intensità emotiva di una partita, il fatto che la palla è rotonda e può realmente finire in ogni modo, alla resa drammaturgica del teatro o del cinema. Riprendendo Aristotele, il calcio incarna la sua trilogia teatrale: ha infatti unità di tempo, spazio e azione. Nasce, nei 90 minuti di una partita, un senso di unione tra chi gioca in campo e chi tifa sugli spalti. Sono questi gli aspetti che hanno attirato su questo sport le attenzioni di scrittori e artisti, che hanno tentato di rappresentare con la propria arte ciò che il calcio trasmette ai tifosi. Ciò che solo il calcio, di più di ogni altro sport, è in grado di far vivere ai suoi appassionati.2016-08-15t205205z_114295925_mt1aci14551856_rtrmadp_3_soccer-england-che-whu_mediagallery-article

Proprio la componente teatrale è centrale nel mondo calcio. La spettacolarizzazione dello sport ne aumenta il bisogno di identità e il riconoscersi in un sentimento di appartenenza comune. Ma a differenza delle “fedi” propriamente intese, il calcio offre ai suoi “discepoli” un importante elemento: la possibilità di differenziarsi. Un tifoso può seguire la propria squadra, ma al tempo stesso può vivere con passione le sorti della squadretta del proprio paese, dell’oratorio in cui gioca il figlio o della squadra in cui gioca a livello amatoriale. Tutto questo senza venire meno alla sua “fede” originale e primaria. All’interno dello stesso stadio, gli stessi tifosi si differenziano in base ai posti dove sono seduti: nei distinti si è numerati e ben distinguibili, nelle curve gli Ultras tendono a mostrarsi più come una massa unica. Le scelte di un allenatore, gli acquisti che una squadra può fare o non fare durante una campagna di mercato estiva, sono argomenti teologici che durano per tutta la stagione e sui quali ogni tifoso può avere la propria opinione, senza che ce ne sia una assolutamente giusta a cui crede ciecamente. Il calcio non genera né uniformità né conformità, ma offre una possibilità di riconoscimento.

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