La realizzazione cinese di Black Mirror

La realizzazione cinese di Black Mirror

Per quanti di voi non conoscano la serie tv originale Netflix “Black Mirror”, è necessaria una piccola introduzione. Si tratta di una rappresentazione distopica di un futuro non molto lontano completamente governato e gerarchizzato dalla tecnologia. Ogni episodio è autoconclusivo e inscena una possibile realizzazione di un universo in cui l’uomo perde le sue peculiarità e connotazioni di “uomo”, viene alienato e sottomesso a sistemi tecnologici di identificazione, di realtà virtuali, costellato da obiettivi a cui dover adempiere per continuare a vivere. Ci troviamo in un vero e proprio videogioco (Charlie Brooker, il creatore della serie, sta anche pensando di creare un episodio interattivo in cui le scelte degli spettatori si ripercuoteranno nell’episodio).

Facciamo due esempi: il secondo episodio della prima stagione vede come protagonisti degli “uomini” obbligati a pedalare su delle cyclette per poter trasmettere energia a tutto ciò che li circonda, per accumulare dei “punti” (chiamati meriti) da poter utilizzare anche nella fattispecie di denaro. Durante l’attività sono inglobati in una dimensione propagandistica, circondati da schermi con programmi tv e pubblicità e i loro occhi devono essere attenti, in caso contrario un rumore assordante e fastidioso obbliga a tornare alla visione. Inoltre, gli obesi vengono considerati cittadini di serie B, costantemente umiliati verbalmente. Nell’episodio intitolato “Caduta libera” (attenzione, più avanti nel paragrafo sono presenti SPOILER della puntata), la protagonista Lacie Pound vive in un mondo in cui è possibile votare gli altri cittadini con dei telefoni intelligenti e delle lenti standard inserite negli occhi che consentono di visualizzare istantaneamente nome e punteggio di tutti. Dopo una serie di peripezie tutte in funzione del ricevere il punteggio più alto possibile, si riconosce nella sua miserabile condizione di 4.2. A seguito di fallimenti incessanti il punteggio scende sempre di più, il suo comportamento diventa sempre più irascibile ed infine viene incarcerata. Il paradosso vuole che proprio rinchiusa in una cella, liberata da telefono e lenti, ritrovi la sua umanità, instaurando un rapporto con il compagno. Un rapporto umano che comprenda socializzare, ridere, scherzare, ma anche e soprattutto, insultarsi, urlare, arrabbiarsi, senza aver timore di ricevere una “bassa votazione”.

Parliamo dunque di un mondo in cui quel punteggio (da 1 a 5) è fondamentale per vivere serenamente, un mondo in cui la popolarità diventa l’unico scopo nella vita, un mondo in cui i rapporti si spersonalizzano e ci si dimentica dell’importanza della comunicazione (a mio parere l’unico motivo per cui siamo al mondo). Ma perché ho parlato di Black Mirror? Chi avrà visto anche solo un episodio avrà ben in mente la sensazione angosciante che pervade al termine della visione, pietrificante neanche avessimo fissato lo sguardo di Medusa. Questo “schermo nero” è già di fronte a tutti noi, ogni giorno. Questo schermo nero è lo stesso nel quale ci specchiamo ogni qualvolta spegniamo il telefono o il computer, vediamo il nostro riflesso prima tanto concentrato e subito dopo perso nel vuoto, nel nero.

La realizzazione di Black Mirror non è tanto lontana, anzi, dal 2005 in Cina la sorveglianza di massa è già realtà. La Cina si è sempre caratterizzata, nel corso della storia, come una popolazione a sé stante, alienata. Ricordiamo le Guerre dell’oppio (1839-1842, 1856-1860), la Cina viene ripetutamente sconfitta dalla Gran Bretagna proprio per la sua difficoltà ad avere rapporti diplomatici di ogni genere con il resto del mondo. L’incubo orwelliano di cui lo stesso autore parlava nel romanzo 1984 è già in atto. Il mondo, diviso in tre zone, capitanato da un unico grande capo, il Grande Fratello: nessuno l’ha mai visto ma appare in manifesti di ogni genere. La sua descrizione fisica ricorda molto Josif Stalin o Adolf Hitler, proprio a voler rimarcare quell’aspetto totalitarista delle dittature presenti nell’Unione Sovietica e in Germania. Totalitarismo imperfetto: una locuzione che a noi sembra tanto remota, utilizzata per la prima volta da Giovanni Amendola per descrivere quell’aspetto invadente del fascismo, la sua presunzione di voler accompagnare la vita quotidiana di ogni cittadino, organizzandone ogni minimo dettaglio, senza lasciare spazio alla creatività e alla fantasia.

Una locuzione che, ripensandoci, non è per niente remota. In Cina nulla sfugge all’occhio dello Stato: l’obiettivo è quello di sorvegliare costantemente, modernizzando i sistemi di controllo sulla popolazione installando delle telecamere ad ogni angolo della città, munite di riconoscimento facciale e vocale. Nel 2016 in Cina erano già presenti 176 milioni di telecamere di sorveglianza: entro il 2020 ne verranno installate altre 450 milioni, l’obiettivo è quello di coprire l’intero paese. Il sistema Skynet, così chiamato, nasce principalmente per regolare e combattere la criminalità (alcune persone sono state realmente arrestate proprio grazie alle identificazioni facciali e comportamentali). Ha iniziato a permeare però sempre di più nelle azioni quotidiane quali ordinare un caffè, pagare nei negozi, utilizzare il proprio viso come carta d’imbarco, o utilizzato nelle scuole per “schedare” gli alunni. Quel totalitarismo imperfetto di cui parla Amendola nel corso del ‘900 si sta trasformando oggi in un totalitarismo digitalizzato. Molti studiosi hanno però espresso il timore che questa invadenza sia sempre di più non solo un modo per incasellare i cittadini in “buoni” e “cattivi” in base ai loro comportamenti sociali ma anche per incenerire ogni tipo di dissenso verso il regime.

In particolare il docente di Scienze politiche Titus C. Chen, della National Sun Yat-sen University di Taiwan ha definito questo sistema come una “moderna forma di ingegneria politica”. L’espressione è interessante perché inserisce il concetto di “politica”, proprio perché questa nuova tecnologia invadente sta diventando anche la modalità propagandistica per evitare che le persone possano prendere iniziative proprie e massificarle totalmente diventando quella che Gustave Le Bon chiamava “folla”, identificando nella stessa quella peculiarità pericolosa e omologante.

Stiamo davvero diventando frutto di una produzione seriale o potremmo ancora conservare quel briciolo di individualità che ci contraddistingue come uomini? La domanda è interessante quanto complicata, c’è però un risvolto positivo in tutto questo. La consapevolezza dell’essere pervasi dalla tecnologia, anche quando essa entrerà totalmente nelle nostre vite, non surclasserà la nostra capacità di frenarla, di continuare a pensare con la nostra mente e, si spera, preservare un po’ di capacità di discernimento.

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