Sbarco in Normandia fotografato da Capa, una delle 8 foto salvate.

Formica tra le formiche

Domenico Quirico

Il giornalismo è rischiare tutto, o meglio, era. Parliamo di giornalismo d’inchiesta, un tipo di giornalismo che richiede settimane, o addirittura mesi, per partorire un articolo a seguito di ricerche molto approfondite rispetto a una determinata tematica. Noi ragazzi del XXI secolo ci chiediamo che fine abbia fatto, noi non abbiamo visto una cosa in particolare, una cosa che in sé racchiude tutto: tutto ciò che ci precede e che ci rende inevitabilmente troppo lontani anche solo immaginando: la guerra. Due esempi in questo campo meritano di essere raccontati: l’italiano Domenico Quirico e l’ungherese Robert Capa. Il primo: inviato di guerra, il secondo: fotografo-reporter di guerra. Il primo vivo, il secondo morto. È proprio questo il rischio di cui si parla: la vita. Ma chi sono questi protagonisti? Domenico Quirico nasce nel 1951, è stato corrispondente da Parigi e inviato di guerra, appassionato degli avvenimenti conosciuti come “Primavera Araba”. La storia di Quirico è affascinante perché fu rapito, ben due volte. La prima in Libia per due giorni, agosto 2011 e la seconda in Siria, rapimento durato ben cinque mesi. Di Quirico si perde ogni traccia. È la storia di un occidentale che finisce nella terra di Maometto, come descrive lui. La prima città in cui riesce ad entrare è Al Qusayr, approdato in questa zona per l’impossibilità imminente di raggiungere Damasco. Ai tempi era assediata da Hazbollah, fedele alleato di Assad. Il suo viaggio è paragonato a quello di Ulisse, una vera Odissea che vede il viaggiatore essere riportato nel luogo d’inizio (Reabruc) dove viene venduto, al gruppo di Al Faruk. Ed è lì che si respira ciò che si diventa: <<un oggetto con valore di scambio>>. A seguito di bombardamenti, percosse incomprensibili, il gruppo è stato venduto, mercificato. L’uomo che vede una totale pauperizzazione e oggettificazione del suo essere uomo, essere privato di un valore morale, essere privato delle scarpe <<ho camminato a piedi nudi per cinque mesi […] il non poter andare alla toilette, il dover chiedere e ricevere sempre no come risposta>>. Al di là delle ideologie, dei pregiudizi, non c’è dubbio che questa storia debba essere raccontata con un punto di vista umano: trasportati come oggetti, da un edificio all’altro, una città che sotto assedio diventava sempre più piccola. Affidati poi ai qaedisti (guerrieri radicali che si propongono di costruire uno Stato islamico in tutto il Medio Oriente) iniziano a vedere uno spiraglio di umanità, racconta dell’epopea della fuga: <<è stata un’epopea straordinaria e terribile, con uomini, donne, bambini, handicappati e vecchi che hanno marciato a piedi per dodici ore, per due notti consecutive, attraverso la campagna. Erano 5-6 mila persone>>. Un popolo fedele, un popolo che conduce una vita ascetica, che combatte per una loro idea di “bene” (messo tra virgolette perché, come disse Manzoni a proposito del giusto e sbagliato, non esiste una netta linea di demarcazione tra ciò che è considerato bene o ciò che è considerato male), un popolo che all’imbrunire si spegne, si ferma e prega. Quirico racconta questa storia chiosando di aver incontrato Il Paese del Male, la Siria è il Paese del Male: “Ci tenevano come animali, costretti in piccole stanze con le finestre chiuse nonostante il terribile caldo, gettati su dei pagliericci, ci davano da mangiare i resti dei loro pasti. Nella mia vita, nel mondo occidentale […] Credo che c’era una soddisfazione evidente in loro nel vedere l’occidentale ricco ridotto come un mendicante, come un povero”. La ferocia, la disumanità che brulica da ogni singola parola raccontata dal giornalista, è palpabile. Per alleggerire quest’inspiegabile malvagità ci parla delle cose semplici: dell’amore per i libri, ad esempio. Di come quest’amore sia riuscito a salvarlo, nei momenti di buio in cui una pallottola nella schiena sarebbe stato lo scenario più prevedibile. “Io viaggio sempre con i libri, piuttosto rinuncio a tre ricambi di magliette. Questa volta ne avevo quattro […] Se farò altri viaggi del genere mi porterò sempre la «Recherche» di Proust, il «Don Chisciotte», libri lunghi, molto lunghi… aiuta”.

Domenico Quirico, giornalista ricco di saggezza, dispensatore di sentenze e difensore di un giornalismo che tutti oggi, imprecando contro la nostra meravigliosa lingua italiana, definiremmo old school. È protagonista di un documentario intitolato “viaggio senza ritorno”, di Paolo Gonella (di cui consiglio la visione, se interessati all’argomento). Ma che cosa vuol dire esattamente la locuzione “viaggio senza ritorno”? Il giornalista dice “il migrante: il suo è un viaggio senza ritorno”, è l’esempio per antonomasia certamente; ma andiamo oltre. Un viaggio, metaforicamente parlando, è un vaglio aperto entro il quale (per un breve periodo) ci catapultiamo a capofitto nel vuoto. È una landa deserta sulla quale i nostri piedi non hanno mai poggiato, una finestra che apre la vita a qualcosa di inesplorato. Un viaggio, fisicamente parlando, è il nostro corpo che si sposta da un luogo climatico ad un altro, da una cultura ad un’altra. Domenico Quirico parla di un sogno: di compiere un viaggio senza ritorno, amplificando l’immagine del tempo e dello spazio. Quando noi viaggiamo e rimaniamo per un lungo periodo in un altro luogo, e poi ritorniamo, casa nostra avrà altre fattezze. Il tempo ci ha posato lo zampino. È tutto estremamente diverso. Egli dice “non c’è più nessuna redazione in cui il capo-redattore chiama due giornalisti e chiede loro di occuparsi di una tematica, e di impiegarci tutto il tempo a loro necessario per adempiere alla richiesta”, parla dell’inutilità dello scrivere la notizia del giorno prima alle sette del mattino, “non interessano più neanche ai novantenni conservatori”. Quando invece lui sottolinea la necessità di andare in un luogo e fare del giornalismo puro: il giornalista è colui che sta in mezzo alle formiche, che rischia la propria vita insieme a chi ha l’onore e il dovere di raccontare, o che la perde davvero (ricordiamo Robert Capa). Il giornalista non è a capo del formicaio, è una formica come tutti gli altri. “Io non mi porterei più neanche il taccuino”, non serve. L’umano è fatto in questo modo: tutto ciò che rimane impresso nella memoria è ciò che mi serve per raccontare, ciò che di per certo acquisirà attenzione, ciò che di per certo commuoverà. Attenzione, commuovere nel senso etimologico del termine: mettere in movimento, agitare e portare con me, che il lettore osservi le mie parole come un monito e che soffra, che trasfiguri le mie immagini in parole, che poi conosciamo le capacità della nostra immaginazione di creare dei film da premi Oscar. Il giornalismo deve dare voce a chi non ce l’ha, deve essere il grido delle persone che soffrono, “che le persone, quando soffrono, stanno in silenzio”. In questa odierna società c’è il problema dell’immediatezza. Il tutto e subito. Le immagini. I video. La mente che non si deve sforzare troppo, non si cerca più lo scavo intellettuale nell’osservatore (perché di questo ormai si tratta, non di lettori), ma la sua attenzione a un prodotto audiovisivo. Senza partecipazione. C’è un eterno dilemma in questo rapporto tra partecipazione e decisione, viviamo in una società in cui anche solo quando si cerca di partecipare la decisione sembra essere in parte, o del tutto, già stata presa. Una partecipazione che si maschera dietro ad una croce su una casellina quadrata prestampata o dietro un freddo sì o no. La mancanza di partecipazione a cosa porta? Le piazze colorate di manifestanti e acclamanti che ha visto la storia, e che sta vedendo anche la contemporaneità, ne sono l’esempio lampante. “Ma chi li legge più i libri?”, dice Domenico Quirico, ed è vero. Aggiunge poi “perché non la finiamo con questa storia che nelle prime cinque righe deve essere già stato scritto tutto?”. La lettura è il sale della vita, è un’arte che va premeditata, sedimentata all’interno del nostro organismo e, come diceva Petrarca usando una metafora molto “organica”, va metabolizzata e digerita. Il giornalista x del giornale x non può osare scrivere della Siria se in Siria non c’è stato, non può parlare della guerra in Libia se in Libia non c’è stato, non può sparare sentenze costernate da frasi fatte e luoghi comuni sui migranti se i migranti non li ha visti. Diventano così figure astratte, mitologie attorno alle quali si aggirano fantasmi sconosciuti. Cos’è successo al giornalismo? Al reportage di guerra?

Un contadino siciliano mostra ad un soldano americano in che direzione si sono incamminati i nemici tedeschi (Rober Capa).

Endre Erno Friedmann, nato a Budapest il 22 ottobre del 1913, è stato un esempio per tutti i fotografi che hanno voglia di vedere, immortalare gli attimi che sembrano impossibili da incorniciare, che sfuggono in una maniera così labile e veloce che nessuno sembrerebbe riuscirci. I reportage di questo fotografo rendono testimonianza di cinque diversi conflitti bellici: la guerra civile spagnola, la seconda guerra sino-giapponese, la seconda guerra mondiale, la guerra arabo-israeliana e la prima guerra d’Indocina. Intimità e immediatezza, compassione ed empatia: ciò che sgocciola dalle due foto. Il ragazzo all’inizio non fu tanto fortunato, passò dall’essere un giovane militante nel Partito Comunista ungherese a sognare di voler diventare uno scrittore, per poi avvicinarsi alla fotografia, campo in cui non sfonderà presto, se non incontrando una donna che gli cambierà la vita: Gerda Pohorylle, la quale inciampa nel fotografo capace quanto sconosciuto nel 1935. La donna era arguta, un’imprenditrice che, tra le ombre del suo tempo, riuscì a studiare la perfetta strategia di marketing per trasformare un giovane da una figura comune a probabilmente il miglior reporter del Novecento. L’idea incredibile e un po’ giocosa fa immaginare i due, follemente innamorati, alle prese con una sorta di romanzo che prende vita: s’inventano due identità nuove, lui non sarà più un povero rifugiato ebreo aspirante fotografo, ma Robert Capa e lei, Gerda Taro, la sua manager. Erano due giovani squattrinati con velleità artistiche, che si incontrano, e danno il via a una delle storie più romantiche del mondo della fotografia. Allo scoppio della guerra civile in Spagna, 1936, i due folli partono per documentare i momenti più intensi della catastrofe. Ma la catastrofe peggiore per Capa doveva ancora arrivare: a seguito di un bombardamento di aerei nazisti sulla colonna delle truppe repubblicane Gerda finisce sotto i cingoli di un tank amico. Ha ventisei anni, lotta contro la morte ma la morte vince lei.

Gerda Tardo e Robert Capa

Capa continua a sopravvivere dando vita a quelle che sono passate alla storia come le foto che meglio documentano la guerra, proprio perché è nella guerra che sono state scattate. Proprio perché è compiendo le azioni più pericolose che Friedmann riesce a fare così bene il suo mestiere, proprio rischiando la vita ogni giorno e ogni secondo, proprio perché segretamente è l’amore per Gerda che lo spinge ad essere così temerario: segretamente cova per tutta la vita il desiderio di raggiungerla. Successe nel 1954, Endre Erno Friedmann muore a 44 anni ritornando da Hanoi, fotografando delle manovre francesi nel delta del Fiume Rosso, poggiando il piede destro un centimetro più in là, per inquadrare meglio, su una mina anti-uomo. Capa è maggiormente conosciuto per le sue fotografie dei campi di battaglia scattate da una prospettiva “tanto vicina al suolo da riuscire a sentirlo tremare”, ma, oltre alla guerra, ha anche un’altra faccia della medaglia: la gioia e i momenti di pace, la sofferenza dei civili innocenti, i bambini soprattutto. Capa era presente quando venne sganciata la bomba sul quartiere residenziale di Madrid, ad Hankou e a Londra, ma raramente si fermò a fotografare i morti o le persone dilaniate, si concentrava invece su quelli rimasti vivi. Vivi nonostante le perdite paralizzanti e la distruzione. Il filo conduttore della fotografia di Capa è proprio il trionfo dello spirito umano, del sorriso che può fare un bambino o dei suoi occhi dolci e grandi, che scaldano anche nelle più terribili avversità. Non mancarono naturalmente i critici: la foto più famosa, ad esempio, il miliziano lealista spagnolo fotografato nel momento stesso in cui la pallottola gli trafigge il corpo. O morto nel momento stesso in cui Capa scatta la foto? Che si sia trovato nel momento giusto al posto giusto (dove “giusto” è un’aggettivazione opinabile) è chiaro, ma molti ne rinnegavano la veridicità. Un anziano giornalista britannico, in merito a questa foto, sosteneva che Capa l’avesse scattata durante un’esercitazione. Uno storico spagnolo ha poi fatto luce sulla vicenda insieme ai familiari dell’uomo ucciso. Capa per tutta la vita ha semplicemente ben posizionato l’obiettivo: prendendo pallottole (Israele, fu sfiorato da una pallottola quando immortala l’incidente della nave Altalena), paracadutandosi da un aereo militare (letteralmente) in Italia dopo aver scoperto della liberazione, fotografando il D-day dalle gelide acque della Normandia e non da una nave a chilometri di distanza. Bagnandosi, strattonandosi con i soldati, vivendo quel pezzo di storia che noi tutti studiamo dai libri. Queste foto sono tra l’altro state perdute a causa di un errore di sviluppo, la temperatura era troppo alta e solo 8 foto delle 106 si salvano dalla bruciatura. La rivista Life, che le pubblicò, giustificò il fatto attribuendo la “colpa” all’emozione di Capa nel momento dello scatto, al tremolio delle sue mani che rovinò le foto, mani che in realtà pur tremando metaforicamente, erano ben ferme.

Il miliziano spagnolo al momento della morte, Cordoba 1936.

Che sia il miliziano spagnolo o il soldato americano nell’esatto momento della sua morte, la madre che piange per il suo defunto figlio partigiano, la bambina che riposa durante l’evacuazione della città o il civile che corre ai ripari al suono delle sirene antiaeree, è la spontaneità dell’immagine che ci fa immergere nella scena. I soggetti ritratti sembrano non accorgersi della presenza del fotografo. Un tizio temerario e coraggioso che ha vissuto la guerra insieme a chi la combatteva, e così Domenico Quirico, “formica in mezzo alle formiche”: è questo il giornalista. “Il corrispondente di guerra ha in mano la posta in gioco: cioè la sua vita, e la può puntare su questo o su quel cavallo, oppure rimetterla in tasca all’ultimo minuto, io sono un giocatore d’azzardo” (Robert Capa). Forse è troppo da visionari dire di dover adempiere al ruolo di informatore in questo modo, però, nel nostro piccolo, proviamo a fare del buon giornalismo!

La gente corre verso i rifugi al suono delle sirene antiaeree, Bilbao 1937.

 

Donne piangono al funerale di 20 giovani partigiani morti combattendo contro i tedeschi poco prima gli arrivo degli alleati, Napoli 1943. La sofferenza nonostante la liberazione.

 

Una donna francese che aveva avuto un bambino con un soldato tedesco viene fatta sfilare per le strade dopo essere stata punita con la rasatura del capo, Chartres 1944.

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