Non ci si salva da soli

Non ci si salva da soli

Siamo partiti in 48, nessuno si conosceva, se non poche persone solamente. Siamo partiti mano nella mano con la persona che conoscevamo e l’altra l’abbiamo lasciata libera, aperta a tutti gli altri. Prendi un gruppo informe di persone, con differenti interessi, diverse storie, diverse età, mettile su un treno, non un treno qualsiasi: il treno della memoria. Il treno diretto verso la terra del Terrore, della disumanizzazione più totale, un treno diretto verso terre tacciate di crimini insanguinati, orrori che echeggiano ancora e sono maledettamente attuali. Dopo ventiquattro ore su quel treno, questo gruppo di persone informi sarà già più unito, già insieme pronti ad affrontare un viaggio nel passato, che sia monito per il futuro, per cambiare nel nostro piccolo le nostre sorti, e le sorti dell’umanità. Siamo partiti da Novara, e con noi altri 800 ragazzi provenienti da Bologna, Torino, Alba; dal Brennero in Trentino ci siamo diretti in Austria, passando poi per la Repubblica Ceca, e infine capitolati in Polonia. Il luogo, dove il primo settembre del 1939, iniziò l’orrore della Seconda Guerra Mondiale, e che porta ancora oggi lo strascico del peggiore crimine che l’umanità potesse mai commettere, riconosciuto nella sua interezza, nella sua unicità: la Shoah.

Il progetto è promosso dall’associazione Deina, con sede a Torino e SerMais, con sede a Novara, (Società Civile Responsabile) in collaborazione con il Comune e la Regione. Ci siamo incamminati verso Auschwitz-Birkenau, verso il ghetto ebraico, verso quel luogo perimetrale diviso e separato dal resto degli uomini. È un viaggio questo che, nel mio piccolo, non posso far altro che consigliare a tutti i ragazzi della mia età e non, un viaggio unico che non si connota solo della difficoltà fisica ed emotiva dei 7 giorni lontani da casa, ma un viaggio che inizia mesi prima, e che non finisce. L’associazione, differentemente da altre, permette ai ragazzi partecipanti di incontrarsi prima, per diverse volte, in diversi luoghi: Baveno, Orta San Giulio (luoghi vicini a noi dove ancora si respira il crimine nazista), per conoscersi, giocare, scherzare. Ma poi anche riflettere, studiare insieme la storia, ripercorrere le tappe, entrare nel contesto con anima e corpo. Diverse persone ci hanno seguite, quali ad esempio Giovanni Cerutti, fondatore dell’Istituto Storico della Resistenza di Novara, che con la levatura intellettuale che lo connota, ci ha istruititi e guidati con le sue parole. Ci ha raccontato diverse storie, ma una in particolare mi sento in dovere di citare. Arpad Weisz, calciatore e allenatore di calcio ungherese di origine ebraica, anche lui trascinato dall’Olocausto. Egli fu un tassello fondamentale per la storia del calcio italiana, completamente scomparso dal quadro della memoria, completamente dimenticato. L’allenatore apportò differenti innovazioni nel mondo calcistico: fu il primo ad entrare in campo con la tuta e le scarpe sportive, inventò la figura moderna dell’allenatore che gioca e soffre insieme ai suoi allievi, cancellò definitivamente l’immagine del “mentore” in giacca e cravatta che osserva da lontano; inventò gli schemi, il giocare con degli obiettivi, vinse numerosi scudetti, tra cui uno con l’Ambrosiana e altri a Bologna. Insomma, egli fu una figura di rilevante importanza, che tutti coloro amanti dello sport o no, dovrebbero ricordare, dovrebbero avere bene impresso nella memoria. In quanto ebreo, dapprima fu vittima delle leggi razziali in Italia; rifugiatosi nei Paesi Bassi, con l’occupazione tedesca durante la seconda guerra mondiale fu rinchiuso prima nel Westerbork, quindi inviato in campi di lavoro e condotto infine ad Auschwitz, dove si spense lontano da tutti, dalla terra d’origine, dai suoi allievi, dalla sua famiglia, lontano da ogni traccia di possibile identificazione. Scomparve. Nessuno si preoccupò di cercarlo, di chiedersi dove il grande innovatore del calcio fosse finito. Dimenticato. Arpad Weisz è particolarmente vivo nei cuori novaresi, egli sedette sulla panchina del Novara Calcio nella stagione del 1934-1935. Dal 2013 finalmente ricordato nello Stadio di Silvio Piola con una targa in suo onore.

E’ un piccolo tassello di questa grande, immensa storia che, come abbiamo detto, si connota per la sua unicità. Abbiamo cercato di entrare nella logica dell’irrazionalità, ripercorrendo gli stadi che, partiti con l’incasellamento di chi era ebreo o no, il riconoscimento con la stella gialla di David sul braccio, cercare il pretesto, il capro espiatorio per denigrarli e renderli scevri di ogni diritto umano o civile, hanno poi portato alla deportazione e alla soluzione finale. Abbiamo ragionato sulla capillarità della propaganda, quel serpente uroborico che si mangia la coda, che ingloba l’intera umanità. Ortega Y Gasset scrisse negli anni ’90 “la rebelion de las masas”, in cui descrive la società come un grande essere umano, costituito da più braccia, più gambe, più menti che ne formano una sola. Una massa formale e omologata, che agisce e pensa in un modo univoco. Il libro ragiona anche su come l’uomo non possa essere estrapolato da quella massa in maniera neutrale, in quanto avrà sempre connotazioni tipiche della società culturale e tradizionale da cui proviene, avrà sempre caratteristiche che lo denotano e lo identificano appartenente a un determinato contesto storico. Il libro ragiona anche sulla certezza e sulla sicurezza del fatto che estrapolando un uomo dalla massa, egli reagirebbe, impaurito, in modo diverso, prenderebbe decisioni completamente scevre da ogni identificazione propagandistica, e sarebbe un uomo, con un solo paio d’arti, una sola mente. Individuale. Ma allora ci si chiede: è possibile vivere nella collettività, farne un obiettivo esistenziale, accantonare l’individualismo, pur rimanendo una massa informe di persone differenti? Questo viaggio insegna ad ognuno di noi che sì, è possibile. È probabilmente il motivo per cui l’uomo è al mondo. Ogni branca che studia l’uomo, dalla psicologia alla sociologia, alla psicologia sociale all’antropologia, ha come fondamento essenziale l’innato bisogno quasi fisiologico dell’uomo di vivere in comunità, di sentirsi parte di un gruppo sociale, di essere in rapporto con l’altro. Persino nel mondo del marketing, una teoria di uno psicologo americano chiamato David McClelland, parla di tale bisogno per vivere con successo la soddisfazione lavorativa, e uno dei tre bisogni è proprio quello di affiliazione, dunque di avere rapporti umani di amore e di amicizia. Gli spunti che da questo viaggio, stimolante e pieno di emozioni, emergono e portano alla riflessione sono molteplici, è un’esperienza che non si può raccontare, che va ingurgitata, masticata lentamente, interiorizzata, digerita, prima di poter trovare qualsiasi parola che non possa apparire stupida o banale. Come lo racconti di sentirti parte del mondo? Di questo strano rimbalzo alla vita, ovvero il ritorno a casa pieno di voglia di agire, di comunicare, di aprirsi, nonostante si visiti il luogo della Morte?

Siamo andati ad Auschwitz, oggi allestito a mo’ di museo, luogo d’impatto. Siamo entrati nelle baracche e tutto quello che la mia memoria può ricordare è impresso in modo permanente. Abbiamo deciso di fotografare con gli occhi, e non con gli obiettivi, abbiamo deciso di riflettere in silenzio, di guardarci negli occhi, di tenerci per mano e asciugare le lacrime, e non di parlare. Non abbiamo detto una parola, nessuno di noi. È un luogo in cui in ogni baracca differente i resti umani sono lì, fermi, non si muovono eppure dicono molto, urlano in coro le loro storie, e dalla leggera teca di vetro che ci separava da loro, si poteva sentire e percepire ogni cosa. In quel luogo molti piangono, si lasciano andare in pianti disperati e singhiozzanti, e questa cosa fa venire rabbia. Nessuno ha saputo spiegarsi perché. Perché si piange. Come possiamo capire? Come possiamo immedesimarci? Eppure, un colpo al cuore dopo un altro, un frammento di storia dopo l’altro, stringono lo stomaco, fanno sospirare, fanno soffrire. Sulle pareti c’erano delle foto, foto delle vittime identificate, c’erano nomi, cognomi, età, professioni; come a voler rimarcare l’umanità che li connotava prima di diventare uomini dal pigiama a righe. Quando gli occhi percorrono quella moltitudine di volti, di sguardi e di strane espressioni, pensieri inappropriati scorrono nella mente. In un eco di disperate considerazioni si pensa a quelle persone come persone fortunate, ad avere un nome, un volto, appese ad un muro volto a ricordarle; si pensa infatti a Chelmno, Treblinka, Sobibor, Majdanek, Belzec; luoghi di cui non sappiamo nient’altro che il nome. Luoghi di sterminio puro, di cui neppure il numero delle vittime è certo. E basta pensare questo, per considerare quei volti “fortunati” nella loro miserabile sfortuna d’esser tacciati del crimine d’essere ebrei. Siamo stati a Birkenau, una distesa di 170 ettari circondata non da un muro che impedisce la vista dell’altra sponda, ma dal filo spinato, che permette di vedere. E al di là del filo spinato: le betulle. Quello è un luogo in cui si cammina da soli, ci si prende il proprio tempo e si percorre in silenzio, immaginando d’esser nudi, scevri di scarponcini e giubbotto e ricoperti solo d’un leggero strato d’umanità ancora intatta, quella che non può essere strappata via: l’anima. L’anima non ve la do. Immaginando di essere a piedi nudi nel fango, immaginando d’esser forte per lavorare o troppo debole e inutile, immaginando le nostre sorti decise da un gesto del pollice tedesco, immaginando d’esser inglobati anche noi in quel turbinio di menzogne raccontate dai nazisti, menzogne che noi oggi conosciamo, ma solo noi, e solo oggi. Quel luogo è interamente ricoperto di un lungo strascico di orribili manipolazioni, aggressioni, fisiche e mentali, bugie raccontate per non agitare la folla, per mantenere la calma, per uccidere in silenzio. È un luogo in cui si sente solo il rumore dei passi, nient’altro, eppure si è immersi in un bosco. Non c’è vita. Si calpesta la desolazione, si sprofonda nel fango della disumanità, si respira l’acre aria di anime fluttuanti, si percepisce il macabro odore di terrore, orrore. Si tocca con mano quel silenzio che intimorisce, un urlo strozzato in gola di chi tenta, disperatamente, di comprendere, di immaginare. Ma non riesce. Si pensa all’uccisione della nascita, dei germogli estirpati alla radice. Si cammina sulle rotaie, ci si tiene per mano e si sente quella stramaledetta volontà di essere un umano.

Le baracche visitabili sono due, abbiamo visto il dormitorio, le latrine e un pavimento di cemento che prima del 1945 non c’era. I piedi erano nel fango anche quando si tornava nel luogo che in quel contesto avrebbe dovuto significare “casa”. Ci sono dei ganci per cavalli, un luogo pensato per le bestie. C’è una baracca, in fondo, camminando un po’, che era quella dove si conservavano gli oggetti personali, chiamata dagli ebrei “Canada”. Si pensa derivi da “keine da”: “nessuno lì”. Non è rimasto più nessuno, quegli oggetti senza i proprietari non sono niente, nessuno. Nessuna traccia di esseri umani.

Durante il viaggio del ritorno ci sono state date delle cartoline su cui scrivere un pensiero ad uno degli 831 sconosciuti presenti su quel treno. Ho ricevuto una frase: “ti auguro di ricomporre i pezzi, di riorganizzare il mosaico, riaccendere la luce tutt’intorno una volta spenta”. Il monito è alla vita, è ad imparare ad ascoltare l’altro, a divenire empatico, a comprenderlo, sentirlo dentro. L’empatia è una parola difficile da comprendere, ed è alla base di ogni genuino rapporto umano. L’augurio è quello di imparare ad accogliere lo sconosciuto, di abbattere il muro del pregiudizio, che abbiamo visto, calpestando il terreno impregnato d’orrore e di morte, porta alla distruzione dell’umanità.

Dopo il 1945, la comunità internazionale giura solennemente che niente del genere dovrà mai ripetersi, eppure la storia del genocidio si macchia di nuovi capitoli. 25 marzo 1971, genocidio bengalese, le forze pakistane attaccano il Bengala allo scopo di sterminare la nuova classe dirigente uccidendo politici, intellettuali, studenti; alcuni storici parlano di 3.000.000 morti, 10.000 persone uccise al giorno. 1994, genocidio ruandese, Hutu e Tutsi vengono abbandonati dalle Nazioni Unite a massacrarsi a colpi di machete e armi violentissime di ogni tipo, bambini divisi a metà, donne violentate, massacrate, uomini uccisi nel modo più cruento immaginabile; 1.174.000 persone uccise in soli 100 giorni. 11 luglio 1995, massacro di Srebrenica, una zona che si prometteva essere completamente smilitarizzata, coperta dalle NU, attaccata dalle truppe dell’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, e dopo un’offensiva durata alcuni giorni, l’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina riuscì ad entrare definitivamente nella città di Srebrenica. Un massacro di oltre 8.000 musulmani bosgnacchi. Numero che rivendica il primo posto sul podio per maggior numero di vittime civili. Si tratta di storie di popoli che in passato hanno sofferto discriminazioni, e che da vittime si trasformano in carnefici, giustificando così l’uccisione. Giustificando il male. Ma giustificando il male non si fa altro che accreditarne la presenza, l’esistenza. Ci si convince, a causa delle ferite aperte e laceranti del passato, di avere un diritto. Il diritto di uccidere. Serbi, croati, musulmani non hanno fatto altro che uccidersi a vicenda, nonostante i vari gruppi etnici siano stati tenuti separati per molto tempo. E allora, noi che siamo tornati, dopo aver vissuto nella storia, averne visitato tutte le istanze, e viaggiato verso tempi astrali; ora apriamo gli occhi al futuro, facendo tesoro di una storia che è maledettamente attuale. Una storia che non finirà mai. Un tarlo è questa discriminazione insita in ogni uomo, che avrà sempre un motivo per venire a galla. Ma se seguiamo quella logica illogica di cui parlavamo prima, possiamo evitare che frasi come “che se ne stiano a casa loro”, “chiudiamo le frontiere”, possano riversarsi, ancora una volta, nell’errore-orrore dell’uomo del passato.

Siamo partiti in 48, sconosciuti e ora amici. Ci siamo guardati intensamente negli occhi, e abbiamo visto e percepito in ognuno di noi, tra le lacrime salate, amare, rabbiose, la voglia di fare di più. Di essere di più. La voglia di adempiere a quel sacro ruolo di essere umano, con tutti i suoi compiti, scevri da tutto ciò che li cancella. Pronti per iniziare il vero viaggio, il nostro ritorno nella società da persone profondamente, inevitabilmente, indelebilmente cambiate. La stanchezza dei corpi cancella i pensieri funesti, non appena ci si accorge di essere tornati a casa con 47 nuovi fratelli. Entrare l’uno dentro l’altro attraverso un abbraccio, percepire il cuore che batte, stracolmo di incertezze, dubbi, domande, che dobbiamo custodire e proteggere con unghie e denti; perché non appena possederemo solo certezze, avremo smarrito il motivo per essere al mondo.

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