Primavere e autunni

Primavere e autunni

Chun qiu, questo è il titolo cinese degli annali contenenti il resoconto del periodo storico tra il 722 e 481 a.C. denominato appunto delle primavere e degli autunni e attribuito a Confucio. Questo arco temporale caratterizzato da grandi cambiamenti è protagonista di una narrazione scandita dall’alternarsi delle stagioni, un po’ come avviene nell’omonima graphic novel del 2015 edita da Becco Giallo.

Milano 1931, Wu Li Shan scende dal treno e approda nella sua nuova vita intrisa di ostacoli, nostalgia e grande determinazione. Il protagonista della nostra storia è un giovane ventiseienne quando ci viene presentato e anche se non lo sa, è il nonno dell’autore di questa meravigliosa graphic novel: Matteo Demonte, studioso di lingua e cultura cinese che insieme alla moglie Ciaj Rocchi decide di “mettere in scena” i ricordi di una vita che vale la pena celebrare. Una ricostruzione a partire dalle memorie del passato resa possibile anche grazie ai racconti dei figli come Angelo Ou (trascrizione del cognome cinese Wu) che, seguendo il valore che in Cina chiamano pietà filiale, rende onore alle proprie origini.

Un nuovo inizio

Ricominciare da zero come straniero in un’Italia degli anni ’30 non era cosa facile ma Li Shan ce l’ha fatta. Sfogliando le pagine dalle illustrazioni realistiche, veniamo trasportati nelle vicende personali del protagonista e della sua famiglia che si alternano ai fatti storici che ne fanno da sfondo, in Italia e in Cina, dalle leggi razziali all’ascesa di Mao. Wu Li Shan lascia una Cina dal sapore bucolico che verrà in seguito stravolta dagli avvenimenti della modernità. Ritroviamo i suoi sentimenti a riguardo proprio in una delle lettere che ci vengono riportate in questo libro:

Carissimi genitori, cari fratelli e care sorelle.

Avevo sentito dei rivolgimenti politici del mio caro paese e sospettavo che fosse successo qualcosa del genere, solo, speravo fortemente che quell’angolo di paradiso tra Qing Tian e Rui An, quel crinale su cui ho corso e giocato e sono diventato grande, fosse rimasto intatto, così come l’ho catturato con lo sguardo quel giorno che vi ho salutato e ho iniziato il mio viaggio. [..] Non posso che sperare che centinaia di fiori sboccino comunque sulla nostra terra, perché è sempre stata la terra la forza del clan”.

Il protagonista sarà poi costretto dalle circostanze, a concludere i propri giorni in Italia, il suo paese adottivo, il paese di sua moglie e dei loro figli. I temi affrontati offrono molteplici spunti di riflessione, e l’esperienza della vita da migrante viene raccontata sotto diversi punti di vista: le lontane lettere scritte in caratteri tradizionali, la compagnia dei connazionali con cui condividere tradizioni e aiutarsi a vicenda, la volontà di farsi strada ed affermarsi, i figli nati in Italia senza diritto alla cittadinanza e il sentimento di appartenenza a due culture differenti, alla costante ricerca di un equilibrio.

Una storia, tante storie

Il lettore si trova tra le mani un racconto in cui la storia del singolo si fa simbolo universale delle storie collettive dei migranti. In questo caso parliamo delle prime migrazioni da parte dei cittadini cinesi verso l’Europa e in particolare verso l’Italia, un aspetto del passato forse poco analizzato e pertanto ancora più interessante.

La migrazione dei cittadini cinesi in Italia ha inizio negli anni ’20 con i primi pionieri, appoggio fondamentale per chi come Li Shan vi si stabilisce nel decennio successivo ed entra a far parte del microcosmo dei venditori ambulanti provenienti dalla regione del Zhejiang. Adesso come allora, la vita da migrante non è certo cosa facile ma, come ci viene raccontato in questa storia, spesso può arrivare infine un riscatto e la propria traccia lasciata in questo mondo potrà rimanere ai posteri. In uno degli interventi allegati alla fine del racconto, il sinologo sociologo Cologna a tal proposito aggiunge:

Quasi la metà dei cinesi d’Italia scelse di restare. Ostinatamente, volle continuare a costruire qui quello che la guerra aveva tentato di distruggere. Vollero credere in un paese che li aveva derisi, insultati e traditi, spogliati dei propri beni e dei propri sogni, ma che scelsero comunque di chiamare casa per i decenni a venire. I loro figli e i figli dei loro figli sono ancora qui, eredi di un retaggio secolare che è parte integrante della nostra storia e che merita di essere ricordato con rispetto”.

 

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