“120 battiti al minuto”: eros e thanatos

“120 battiti al minuto”: eros e thanatos

Act up è un movimento sorto negli anni 90, in Francia, con l’intento di sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema dell’HIV (negli anni in cui il I’aids raggiunse il suo culmine, mietendo migliaia di vittime). I suoi attivisti, per lo più omosessuali, quasi tutti sieropositivi – ma c’è anche chi è stato contaminato in ospedale tramite sangue infetto – intraprendono azioni dimostrative (come lanci di sangue finto, flash mob) protestando contro l’inerzia delle case farmaceutiche restie a pubblicare i risultati delle cure sperimentali e praticando controinformazione nelle scuole sull’importanza dell’uso dei contraccettivi. Non hanno nulla da perdere, sanno di essere destinati alla morte entro poco tempo.
È una mobilitazione tutta politica la loro (uno dei bersagli è proprio il governo Mitterand ritenuto colpevole di un’inadeguata campagna di prevenzione), eppure la loro rivolta rimane pacifica, non eversiva.

Questa la storia al centro del film diretto da Robin Campillo, 120 battiti al minuto, premiato a Cannes e candidato all’Oscar, nelle sale italiane da giovedì distribuito da Teodora.
Accanto a questa parte più storica, quasi documentaristica – esperienza che il regista ha vissuto in prima persona, il che rende il film alquanto verosimile – si sviluppa la storia d’amore tra due attivisti, Sean e l’Istrionico Natan.
I 120 battiti al minuto del titolo si riferiscono ai battiti del cuore e alla musica house in voga all’epoca nelle discoteche di Chicago.

È un film di gruppo, corale (dominano le assemblee), che oscilla drammaticamente tra due sentimenti, morte e amore. Sebbene lo pervada una certa tristezza (perché il tema lo impone), non è angosciante e non v’è traccia di sentimentalismo o retorica; lo spettatore viene colpito dall’entusiasmo e dalla voglia di vivere di questi ragazzi, dalla tensione ideale che li porta a battersi perché quello che è successo a loro non accada ad altri.

Non è un capolavoro, come viene presentato in questi giorni; ma merita sicuramente di essere visto (e trasmesso nelle scuole superiori). Non lo è per alcune ragioni: perché, benché non sia noioso né proceda lento, è comunque troppo lungo e prolisso (dura 2 ore e 15 minuti, almeno mezz’ora in più del dovuto); perché contiene scene crude, inessenziali al fine del racconto, che possono infastidire o turbare qualche spettatore (su tutte, quella della masturbazione in ospedale, con tanto di liquido seminale ripreso dalla telecamera). Per quanto concerne la sceneggiatura, appare discutibile, se non completamente priva di senso, la scena finale di sesso tra due dei protagonisti, nel momento in cui un dramma li coinvolge direttamente. Dal punto di vista tecnico, inoltre, affatica l’occhio qualche passaggio repentino (in gergo cinematografico lo stacco) da scene troppo scure a troppo luminose. È invece di grande impatto visivo, nel finale, la Senna tinta di rosso, il colore del sangue, metafora dei morti causati dall’Hiv.

Se mai ce ne fosse bisogno, 120 battiti al minuto dimostra, una volta di più, la superiorità del cinema francese. Che in questo caso si manifesta in maniera evidente nella capacità di trattare temi e storie molto complesse senza cedere alla banalità o scadendo nei più vieti cliché.

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