Storia del mondo attraverso le caffetterie

Storia del mondo attraverso le caffetterie

Qualche sera fa, un violento acquazzone si è abbattuto sulla città, lasciando nell’aria un odore di brace accesa e annunciando l’ingresso nella stagione dei ricordi. Sempre durante la stessa sera, ma alcune ore più tardi, per un caso dovuto unicamente ad un algoritmo favorevole o a qualche divinità benigna, durante una riproduzione casuale, una finestra video si è aperta su un brano dal titolo – manco a dirlo – Autumn in NewYork, datato 1960 ed eseguito dal vivo da un’orchestra di pochi elementi in uno studio radiofonico o televisivo.

Non so bene a cosa fosse dovuto, se all’aria fredda e umida lasciata dal temporale, oppure alla melodia del tocco discreto delle dita di Stan Getz sul pianoforte e dell’elegante entrata del sax, suonato da John Coltrane. Ma nella penombra della cucina, quasi del tutto sommersa dal buio delle ore tarde, si è fatta largo a poco a poco una fitta nostalgia verso una specie di patria interiore lontanissima in quel momento, ma localizzata con precisione nello spazio e nel tempo. D’altronde, negli attimi di quiete che la musica restituisce ognuno può trovare le voci che vuole.

Per essere più chiaro e completo, sarà meglio però indietreggiare e avvicinarsi al punto in maniera laterale. Dieci anni fa, la piazza principale del paese in cui sono nato e vissuto per vent’anni, si sarebbe presentata in maniera assai diversa da come potrebbe apparire quest’oggi ad un visitatore di passaggio o a chi la vive e la percorre ogni giorno. Sotto la rapida successione di archi che, dall’alto dei balconi, ne incornicia un versante e la stringe per forme e colori ad una certa Sicilia in un legame di lontana, ideale ma concretissima, parentela, calò – per sempre, si pensava – una saracinesca nota ai tempi dei miei nonni. Era quella di uno storico bar di Nardò, in provincia di Lecce, durato quasi un secolo, aperto fin dai tempi in cui qui, subito fuori dal centro, l’edilizia non aveva ancora cambiato i connotati al paese e le caratteristiche tipiche del luogo erano legate ad un’economia di sussistenza perlopiù fondata sul regime di latifondo e sullo sfruttamento del bracciantato agricolo.

A mia memoria, la notizia della chiusura non destò eccessivi clamori, date le acque malmostose in cui versava la vecchia proprietà e, più in generale, visto lo stato di salute del centro storico. La natura però mal sopporta il vuoto e si può star certi che quest’ultimo, una volta creatosi, sarà presto o tardi riempito. Da chi? In questo caso da una rampante partita iva locale in giubbino in piuma d’oca Moncler, occhiali da sole a mascherina e codino impomatato all’altezza della nuca, la quale arrivò mesi dopo a versare l’affitto di quelle stanze, rimaste silenziose. Fu il periodo, quello, in cui dalle nostre parti chi avesse voluto, avrebbe potuto includere tra i vanti della città la luce, riflessa naturalmente, di un’insegna con riportato il cognome di un fotografo allora come oggi protagonista dei programmi di intrattenimento pomeridiano per casalinghe e della cronaca giudiziaria nei notiziari nazionali. Costui, fresco di ritorno in libertà dopo un breve soggiorno nelle patrie galere per via di rilievi di profilo penale nati da banali compravendite di materiale compromettente, trovò modo di sfuggire alle grinfie dell’antologia di vulve da cui era conteso per precipitarsi a bordo di una pacchiana fuoriserie in occasione dell’inaugurazione del ristorante della sua catena, forse giusto un poco in ritardo rispetto all’orario stabilito, così coronando (perdonate il gioco di parole) il fervore devozionale riservatogli dalla cittadinanza, accorsa al gran completo in uno scenario in grado di verificarsi soltanto durante i comizi conclusivi delle elezioni comunali, quelli più feroci, succulenti e partecipati. Durò poco, come ogni moda.

Nardò, Piazza Salandra

A chi gli sollecitava qualche dritta per riuscire ad essere innovativo scrivendo sul pentagramma, Giuseppe Verdi una volta consigliò: ‘’Tornate all’antico e sarà un progresso’’. Si può dire lo stesso della piazza con l’obelisco al centro. Anni dopo, archiviato il momentaneo interregno, spentosi rapidamente, il locale tornò al nome originario e riaprì sotto nuova gestione, facendo sfoggio di un gusto ricercatissimo per l’arredo d’interni. Una piccola dispensa color panna raccoglie ancora in un’unica struttura, come se sedessero a teatro sui palchi della balconata, una lunga serie di bottiglie di liquori antichi e rari. Il vecchio bancone, lo stesso degli anni Venti, è stato recuperato e adesso –laccato e rimesso a nuovo – si prende gioco di tutto il tempo passato, mostrando ad ogni avventore le sue rughe di legno intervallate dalle macchie dell’età, piccoli buchi e tarli. In bella mostra dietro le vetrine, ecco comparire il morbido rigoglio dei dolci tipici e vaschette di ferro riempite da dense onde di gelato diviso per gusti i cui nomi rendono omaggio alle masserie sparse nelle campagne dell’entroterra. Vini e liquori, ricchi nel prezzo non meno che nel volume alcolico, sono nascosti sulle mensole, adornando le pareti. In filodiffusione, a donare tono a tutto questo, solo jazz, di qualsiasi tipo – e Dio solo sa quanto sia complicato trovare un bar nella cui filosofia, ammesso che ne abbia una, non siano previste concessioni al canone musicale radiofonico.

Nel vecchio Caffè Parisi, per evidenti limiti anagrafici, non avevo mai messo piede. Dal nuovo, una volta entrato, non sono più uscito – in senso metaforico, ma forse anche reale se è vero, com’è vero, che ci si porta dentro ciò che non si riesce, per un motivo o per l’altro, a tenere accanto. Ad oggi non so quantificare il numero di ore passate lì dentro nei rari mesi dell’anno in cui mi capita di tornare. Alcune però sono rimaste intatte, nitide. Quelle dei tardi pomeriggi in cui, scese le scale e lasciatisi alle spalle i corridoi, gli scaffali ingombri di libri e le volte a stella candide e piene d’infiltrazioni dei soffitti della biblioteca comunale, ospitata dal Chiostro appartenuto ai frati carmelitani, si poteva e doveva dare una rinfrescata a tutte le nozioni apprese nell’aula, monopolizzata dalla presenza del mio gruppo di amici – due passi ed eccoci lì, proprio di fronte al vecchio palazzo della Pretura. Oppure certe controre estive durante le quali il caldo insopportabile e l’abbondanza delle porzioni servite a pranzo lasciava deserte le strade ed era possibile e piacevole, oltre che potentemente suggestivo, abbeverarsi di luce e di caffè, prima magari di doversi salutare in vista dell’imminente ritorno di qualcuno di noi nel luogo scelto per scappare via dalla terra d’origine. Ancora ricordo le sere d’inverno in cui, rimessi nelle scatole gli addobbi natalizi, scivolavo con pigrissima voluttà sui divani in pelle fin sotto i tavolini, sbadigliando l’ultimo giro di amaro e posticipando di volta in volta il momento in cui cominciare ad avviarsi verso casa e il letto, passando per i vicoli. Era un modo di marcare una distanza nettissima tra chi s’incontrava, malgrado non ci fosse nulla da fare e chi preferiva consumare la sua sacrosanta noia in privato, lontano dagli sguardi altrui – noi usciamo, cazzi loro.

Cazzi loro perché uno tra gli adagi preferiti da quella vecchia canaglia di mio padre, così recita: ‘’ci camina llicca e ci stae a casa sicca’’ (trad. it. ‘’chi esce e si dà da fare può ottenere qualcosa, chi rimane a casa può solo appassire’’). Ed io ai tavolini disposti nel lungo salone del Caffè Parisi ho ottenuto tanto, penso di aver imparato molte cose. Ad esempio, a bere: distante dalle sbronze demoniache della prima gioventù (prese ovunque, con chiunque, in certi casi comunque e per mezzo di qualsiasi bevanda purché alcolica) ho sperimentato cosa significhi poco e bene, al punto per cui ormai, se si tratta di esagerare, tanto vale praticare altrove. Per lo stesso senso di sacrale rispetto, benché si potesse, al suo interno non ho mai voluto aprire un computer – usanza tristissima diffusa in tutte quelle città, molto spesso del Nord, così tolleranti da aderire senza fiatare ad ogni tipo di vaccata nordeuropea. Meglio mantenere separato il lavoro dallo svago e lasciare a quest’ultimo uno spazio inviolabile dove prender parte al gioco di sempre, quello di società, prestando orecchio all’altro, alle sue parole e ai suoi umori, recitando il ruolo consueto, il proprio, oppure ritirarsi in se stessi sfogliando le pagine di un libro o di un giornale. E se poi quest’ultima consuetudine è possibile perfino nella bettola più malmessa, solo qui si può trovare la piccola pila di fogli e gazzette adagiata su una scrivania di mogano, sotto una lampada da lettura, a metà della sala, come se la disposizione dei mobili indicasse senza fraintendimenti la rilevanza della loro destinazione d’uso.

Nardò, Piazza Salandra di sera

Se in futuro qualcuno decidesse di compilare e pubblicare un atlante illustrato con l’obiettivo di rappresentare attraverso le figure umane questi anni mediocri quando non apertamente volgari, futili e senza consistenza, non potrebbe dimenticare di includere tra i tipi ricorrenti quello del giovane™ pronto a spiegare i suoi gusti in termini di consumo culturale. Per costui non sono incomprensibili (figuriamoci scandalose) le ragioni del successo di quello scrittore impegnato ad andare spesso e volentieri a capo per dar forma di poesia ai suoi aforismi zuccherosi e abbastanza prevedibili, di quel cantautore trasandato con voce indolente ma dalla così delicata sensibilità intimista, di quello spacciatore di periferia in cima alle classifiche discografiche dai modi e dal lessico tanto idioti da meritare il conferimento ad honorem della 104 e così via, no. Lui vi parlerà con lo sguardo stralunato, il sorriso ebete e l’aria profonda di chi si sta pronunciando sui massimi sistemi, comunicando ad un abitante di Marte appena sbarcato sulla Terra una verità autoevidente, ossia che il dato personaggio x o y ‘’funziona’’ perché ‘’è giovane, fresco, nuovo’’. Ecco di fronte a tanta giovinezza, freschezza e novità si fa avanti sempre più spesso la tentazione di chiamarsi fuori, sabotare il reale lasciandolo colare a picco, sprecare il tempo in attività di nessuna utilità pratica immediata, consegnarsi mani e piedi allo studio della Storia – meglio, a quello dell’archeologia – e barricarsi in oasi di incontaminata inattualità mettendo il naso fuori dall’uscio per controllare l’aria che tira il meno possibile. Coscienti della fortuna ricevuta in dote se alcune isole in cui è possibile farlo esistono ancora, a loro va la nostra gratitudine, unita ad un tiepido rimpianto e alla promessa di tornare a far visita il prima possibile.

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