“Leaving Neverland”, vademecum non schierato

“Leaving Neverland”, vademecum non schierato

Leaving Neverland è il documentario, prodotto da HBO, che, a 10 anni dalla morte, rinverdisce le accuse di presunti abusi ai minori che coinvolsero Michael Jackson.

Presentato di straforo al Sundance festival, ha ottenuto un’eco considerevole in tutto il mondo ingenerando una vera e propria damnatio memorie nei confronti di quella che è considerata a tutt’oggi la più grande pop star mai esistita. Diverse emittenti radiofoniche hanno messo al bando le sue canzoni; i Simpson cancellato un episodio che lo vedeva protagonista; Louis Vuitton bloccato una collezione a lui ispirata; e via seguitando.

Dan Reed, il regista, ha realizzato un documentario lungo quattro ore dichiaratamente partigiano, a tesi: non troverete spazio per contraddittori né alcuna prova oggettiva della colpevolezza di Jackson. Nulla insomma che già non si sapesse. Eppure il quadro che ne esce è sconvolgente.

Leaving neverland è incentrato sulle testimonianze di Wade Robson e Jimmy Safechuck. I racconti sono molto circostanziati, non vengono lesinati particolari scabrosi.

Va detto che nemmeno uno sceneggiatore dotato della più fervida fantasia avrebbe potuto concepire un racconto così minuzioso e dettagliato dei rapporti che intercorsero tra i due e il cantante.

Il primo conobbe Jackson, all’età di 7 anni, durante una gara di ballo organizzata dal cantate stesso che si trovava in Australia per una serie di concerti; il secondo girò con lui, all’età di 9 anni, uno spot della Pepsi.

Le dinamiche sono le stesse in ambedue i casi, anche se in tempi diversi: l’amicizia sempre più stretta, l’isolamento delle famiglie (che non si accorgono di nulla) fino alle – presunte – molestie sessuali reiterate nella tenuta di Neverland, che però i bambini insidiati non percepiscono come tali ma piuttosto come segno di attenzione e affetto da parte del proprio idolo, finché non vengono sostituiti da altri due bambini che entrano nelle grazie del cantante provocando in loro gelosie e risentimento.

A prescindere dalla veridicità delle accuse, è oggettivamente innegabile un elemento: il rapporto che si instaura tra Jackson e i bambini che affollarono la sua tenuta è sicuramente morboso, anomalo, disfunzionale.

Li subissa di regali, attenzioni, chiama e scrive loro più volte al giorno; passa interere giornate insieme ai due, a giocare, guardare film, dormire insieme (e qui emerge tutta la sua solitudine).

Secondo taluni, Jackson si contornava di bambini nella sua residenza perché in fondo, essendo stato privato di un’infanzia per colpa soprattutto del padre, era rimasto uno di loro.

Le reazioni al documentario sono state di due tipi (come al solito in questi casi, a seconda dell’essere detrattori oppure fan del cantante americano): c’è chi lo ha considerato una colossale (e ignominiosa) montatura costruita ad arte per screditare un uomo che fu assolto in vita da tutte le accuse e che oggi non può più difendersi; e chi invece ritiene che le accuse siano fondate e che Jackson sia riuscito a insabbiarle grazie soprattutto alla sua popolarità ed influenza economica che lo rendevano intoccabile.

Jackson ha subito due processi per abusi sessuali. Nel 1993 ad accusarlo è il tredicenne Jordan Chandler. Viene assolto in via extragiudiziale pagando (su consiglio del proprio avvocato, cosa di cui poi si pentì) 23 milioni di dollari in cambio del riconoscimento della propria innocenza. Similmente, nel 2005 venne assolto da tutti i capi d’accusa. In entrambi i processi gli accusatori erano scarsamente credibili, millantatori in cerca di soldi, le accuse completamente infondate.

Non solo, per 10 anni l’FBI indagò su Jackson senza mai trovare nulla di compromettente. Diversi vip, ad esempio Nicole Richie, Macaulay Culkin, che negli anni hanno frequentato la tenuta di Neverland, hanno smentito recisamente che Jackson potesse essere un pedofilo.

E i protagonisti di Leaving Neverland, Robson e Safechuck, ancora minorenni  testimoniarono nel 93, insieme ai loro familiari, a favore della difesa (Robson ha continuato a difenderlo anche nel secondo processo e fino a pochi anni fa, a suo dire per non pregiudicare la propria carriera di coreagrafo). Safenchuk invece sostiene di averlo fatto perché Jackson lo aveva circuito ripetendogli spesso che se avesse raccontato quello che succedeva tra di loro sarebbero finiti entrambi in prigione.

Leggendo la poderosa biografia di Randall Sullivan, si evince che non esistono prove inconfutabili di abusi perpetrati da Jackson, descritto come padre amorevole per quanto stravagante e come un individuo asessuato, disinteressato al sesso femminile; oltreché uno dei più grandi benefattori della storia in favore proprio dei bambini (è inspiegabile come si possano conciliare questi aspetti con le abiezioni descritte in Leaving Neverland).

Quello di Michael Jackson è uno di quei casi in cui rimane impossibile stabilire con certezza la realtà dei fatti, e quindi allo stesso modo ognuno può essere portato a credere all’innocenza o alla colpevolezza del cantante in base alle proprie convinzioni.

Tuttavia – e questo vale per tanti altri: Polansky, Allen, Spacey ecc – vogliamo qui affermare la necessità di scindere il giudizio sul personaggio rispetto a quello che ha prodotto come artista nel corso del tempo. In questo senso, il radicalismo del movimento #MeToo, oggi imperante, rischia di essere, pur con le migliori intenzioni, alquanto pernicioso.

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