Goodbye, Maria

Goodbye, Maria

Tennis, i’m saying goodbye, così Maria Sharapova, a soli 32 anni, ha dato l’addio al mondo del tennis. Un ritiro non inaspettato: da tempo Sharapova non era più competitiva, precipitata in classifica oltre il numero 300 a causa di un problema irrisolvibile alla spalla destra.

36 tornei vinti – di cui 5 slam, su tutte le superfici – 21 settimane al numero uno, unica russa a riuscirci, una medaglia d’argento alle olimpiadi di Londra. Sono solo alcune delle cifre che condensano una carriera incredibile. Ma che da sole non rendono l’idea.

Sharapova è riuscita a far diventare questo sport un business, contemperando  successi in campo e glamour. Per 11 anni (2005/2016) è stata la sportiva donna più pagata del mondo, guadagnando, di soli introiti extra tennistici, più di tutti i suoi omologhi maschi (ad eccezione di Federer) o di quasi tutti gli altri sportivi maschi in genere. Marchi celebri come Porsche, Nike, Range Rover, Tag Euer; un patrimonio stimato da Forbes in 320 milioni di dollari. “Imagine is everything” dichiarava Agassi in una celebre pubblicità della Nike. In qualche modo, Sharapova ha fatto propria la lezione di un’altra russa famosa: Anna Kournikova, la quale, grazie a una bellezza strabiliante, si è ritagliata una carriera di successo da modella mentre solcava i campi da tennis. La differenza tra le due è che per Sharapova il tennis ha sempre avuto la priorità sul resto, oltre ad aver avuto una carriera sportiva assai più longeva e incomparabilmemte migliore. Agli esordi, non a caso, lei dichiarerà sprezzante: “non sono la nuova Kournikova: io voglio vincere!”.

La sua storia è arcinota, una favola sportiva a lieto fine: il padre che, a seguito del disastro di Chernobil, imbeccato da Martina Navratilova, sbarca con la figliolina in America in cerca di fortuna, con 100 dollari in tasca e senza conoscere una parola di inglese. Yury Sharapov è un genitore invasato che, a un certo punto della sua vita, decide di fuggire dal proprio paese natale, dalla miseria per perseguire a tutti i costi un obbiettivo: fare della propria figlia una campionessa: e, non senza un certa dose di fortuna (in particolare un agente dell’Igm, che coglie il potenziale della figlia e decide di investire su di lei), riesce a realizzare il suo sogno. Un po’ come, fatte le dovute differenze, il padre delle Williams.

Nell’accademia di Nick Bollettieri, dove si allenano i più grandi, da Agassi alle sorelle Williams, Sharapova si fa subito notare: biondissima, con l’apparecchio ai denti, un gioco fatto di colpi piatti e molto potenti – seguendo le indicazioni di un altro suo allenatore-mentore Robert Landsorp – nonostante il fisico ancora gracile; i gemiti assordanti con cui accompagna i colpi diventano il suo marchio di fabbrica, così come la sua tenacia agonistica, la voglia di lottare su ogni punto come fosse l’ultimo. Scrive in unstoppable, la sua autobiografia, ricca di spunti e aneddoti interessanti (pubblicata in Italia da Einaudi): “Odio perdere e immagino che sia cosí per tutti gli atleti, non si impara mai ad accettarlo, né si dimentica, ti senti morire, e basta. Nel tempo ho messo a punto delle strategie per affrontare il dolore bruciante della sconfitta, partendo dall’«imparare dai propri errori». Ogni sconfitta ti insegna qualcosa: prima impari la lezione e dimentichi di aver perso, meglio è. L’ultima cosa da fare dopo una sconfitta è parlarne e continuare a ripetersi che è solo tennis, solo un gioco. Perché ovviamente non ci credi”.

Il tennis è per lei occasione di riscatto, l’unico modo per essere ripagata dei tanti sacrifici fatti (una vita di stenti, la sveglia all’alba per allenarsi, mentre tutti gli altri ragazzini della sue età dormono o giocano ai videogiochi, il distacco forzato dalla famiglia, in particolare la madre, che è dovuta rimanere a vivere in Siberia). Le persone vedono solo il successo, non quanta fatica e sudore ci sia dietro ogni trionfo, è ciò che più si arguisce leggendo il suo libro.

La consacrazione nell’olimpo del tennis a Wimbledon nel 2004: dapprima batte Lindsay Davenport in semifinale per poi, da sfavorita, rifilare una batosta in finale alla ben più quotata Serena Williams; con cui si instaura una rivalità invero più mediatica che sportiva. Sono entrambe due prime donne, ma pur essendo Williams, dal punto di vista tennistico, molto più forte dell’altra, Sharapova ha fascino da vendere e la surclassa quanto a bellezza e popolarità. Nel libro rivela – dopo quella finale persa – di averla vista negli spogliatoi di Wimbledon piangere a dirotto. L’onta è così insopportabile che Williams dirà a un’amica: “non perderò mai piú contro quella stronzetta”. E così sarà: la minore delle sorelle williams l’ha sempre sconfitta in 20 incontri su 22 disputati, a volte in maniera impietosa (all’australian open 2007 fu un’autentica mattanza).

“Avevo vinto Wimbledon ad appena diciassette anni, ero diventata una star, corteggiata dagli sponsor, ero al centro di campagne pubblicitarie e oggetto di invidie”.

Inizia a macinare vittorie su vittorie, si affranca da un padre ingombrante, che tanta parte ha rivestito nel suo successo, e da un’immagine di donna algida e altezzosa, scostante e spocchiosa. Nel tour è sempre stata invisa a tutte, non ha amiche al di fuori di Kirilenko (“sono tue avversarie in campo e fare amicizia è contro il tuo interesse. Se vuoi bene a una persona è piú difficile sconfiggerlo”, ipse dixit).

Dal punto di vista tecnico, il rovescio, specie se lungolinea, è il suo colpo migliore; il diritto, migliorato molto nel corso degli anni, è meno sicuro; il servizio, che era un’arma micidiale prima dell’intervento alla spalla, è sempre stata tentennante. Nel gioco di volo o nella corsa in avanti Sharapova ha sempre palesato difficoltà ai limiti della goffagine (anche se nel tempo ha perfezionato e imparato a usare la “palla corta” soprattutto sulla terra rossa).

Impara l’importanza della preparazione atletica, aspetto che nella prima parte della carriera aveva trascurato, lei che ha in dote un fisico allampanato (è alta 1.88 cm). Si opera alla spalla nel 2008, segue un periodo di riabilitazione e ritorno sui campi piuttosto travagliato, prima di ritornare ai vertici.

I flirt veri o presunti si sprecano (Cristiano Ronaldo, Adam Levine; poi i fidanzamenti con Vujacic e Dimitrov; oggi stà con il miliardario Alexander Gilkes), diventa un’icona sportiva, richiestissima per i servizi fotografici e i red carpet di tutto il mondo, fa addirittura un cameo in Oceans Eight.

Chissà se avrebbe potuto vincere altri slam, complice l’assenza dal circuito delle due più forti rivali, Serena Williams e Azarenka, se non fosse intervenuta sul più bello la squalifica per l’uso di meldonium, una sostanza dagli effetti opinabili. In Russia viene venduto come un farmaco da banco per curare problemi cardiaci e diabete, ne fanno uso milioni di russi, specie tanti atleti dell’est. Le viene prescritto dal medico di famiglia e lo assume da dieci anni; nel 2015, però, viene inserita dalla Wada tra le sostanze dopanti. La federazione avvisa tramite mail il suo agente, che, alle prese con un divorzio, scorda di leggerla. È condannata a due anni di squalifica, derubricati a quindici mesi in appello, riconoscondone la buona fede. Gli sponsor la abbandonano, lei cade in un periodo di depressione (“È quando sei nella merda che distingui i veri amici dai semplici conoscenti”, scrive), ma seguita ad allenarsi e a curare la sua carriera imprenditoriale (frequenta un corso di management ad Harvard).

Venne trattata come una reietta; nessuno pubblicamente prese le sue difese, ad eccezione di Isinbayeva e Putin. Di fatto fu una contesa tutta politica tra Stati uniti e Russia, che col doping aveva poco o punto a che fare; ma a farne le spese è stata la punta di diamante dello sport russo (Sharapova, che si definisce più americana che russa, è stata scelta come portabandiera alle olimpiadi inglesi).

Da lì in poi tante sconfitte e qualche sporadica fiammata (il titolo a Tianjin, le vittorie contro Halep e Wozniacki negli slam, i quarti al Roland Garros, la semifinale a Roma). Troppo poco per una come lei, abituata a ben altri risultati.

Per tornare al vertice si è affidata infine alle cure di Riccardo Piatti, che di lei dice di non aver mai visto un atleta, uomo o donna, allenarsi così duramente; finché il corpo non la abbandona. L’annuncio lo ha dato, nel suo stile, tramite una lettera a Vogue e Vanity Fair e un’intervista rilasciata al New York Times.

“Come fai a lasciarti alle spalle l’unica vita che tu abbia mai conosciuto? Come ti allontani dai campi su cui ti sei allenata da quando eri una bambina, il gioco che ami – che ti ha portato dolori e felicità incredibili – uno sport in cui hai trovato una famiglia, insieme ai tifosi che ti seguono da sempre? Sono nuova a questa sensazione, quindi per favore perdonami. Tennis, ti sto dicendo addio”.

 

 

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